Robinson, 13 febbraio 2021
I Black Sabbath raccontati dal bassista Geezer Butler
Una inquietante presenza avvolta in un mantello nero sulla cover del primo album, la croce rovesciata all’interno con scritto dentro uno strano poema: “By the lake a young girl waits (...) She smiles, faintly at the distant tolling bell, and the still falling rain”. E il disco inizia davvero con una lugubre campana e il suono della pioggia: è il “Sabba Nero”. Uno degli esordi più importanti della storia della musica perché con questo album nasce un nuovo genere. Che, con espressione iterata da William Burroughs, si chiamerà “Heavy Metal”, “Metallo Pesante” come i riff di Tony Iommi, chitarrista di origine italiana che, avendo due falangi amputate a causa di un incidente in fabbrica, fabbricò da solo delle protesi in plastica e, abbassando l’accordatura, diede origine a un suono cupo e, appunto, pesante, mai sentito prima. Chi erano i Black Sabbath? Feroci adoratori di Satana? Sembra strano viste le premesse, ma per nulla: «Tutta la grafica con la croce rovesciata e quella specie di poema non li abbiamo fatti noi», hanno sempre dichiarato «e nemmeno la foto della copertina. Siamo sempre stati contro la magia nera». Geezer Butler, bassista e autore di molti testi della band spiega come andò veramente.
Partendo da oggi, com’è la situazione nel posto in cui si trova ? Il suo vecchio compagno di band, Ozzy Osbourne, ha appena detto che “se non mi vaccino al più presto rischio di lasciarci la pelle”...
«Lo capisco. Le cose qui in California sono fuori controllo. Non avrei mai immaginato che si potesse realizzare una pandemia oggi. Questo è il primo anno dal 1970 in cui non ho viaggiato in aereo e che non sono andato nella mia casa in Inghilterra per più di un anno. È veramente spaventoso!».
Tornando indietro nel tempo, perché lei a 16 abbandonò la scuola?
«Non me ne sono andato. A quell’età si poteva scegliere e io non potevo permettermi l’Università».
Nei Black Sabbath tutti venivano dalla “working class": è stato difficile riuscire a fare musica?
«Ce l’abbiamo fatta perché eravamo disperati. Non volevamo finire come i nostri genitori a passare la vita a fare lavori devastanti per quattro soldi.
Volevamo fare quello che amavamo: la musica. Tony Iommi è diventato da subito il leader naturale della band sebbene tutti quanti avessimo uguale diritto a dire la nostra su qualsiasi questione. Io ho preso la direzione musicale e ho dato il nome al gruppo.
Ozzy era il tipo divertente e Bill quello che teneva insieme tutti noi».
Oggi è difficile per le nuove band riuscire a fare qualcosa di veramente nuovo come avete fatto voi. Perché?
«Ai tempi la musica non era fatta di categorie come adesso: era tutta pop music. Così sulla stessa stazione radio potevi sentire qualsiasi cosa: Beatles, Cream, Hendrix, Sabbath, Abba, Temptations etc. Così potevi scoprire anche cose che non erano di tuo gusto. Oggi ci sono migliaia di radio ultraspecializzate ognuna che trasmette il suo genere. E poi ci sono milioni di band metal, hip hop e così via. Così è molto più difficile farsi ascoltare da un pubblico ampio».
Come era il mondo in cui siete cresciuti rispetto a quello di oggi?
«La differenza era che non c’era Internet né i social media e dovevi farti strada cercando di costruirti un seguito nei piccoli club e pub».
C’è qualcosa che le manca adesso che è un famoso e ricco musicista?
«Mi manca l’eccitazione dell’ignoto, delle possibilità che la vita può darti quando è ancora aperta davanti a te ma sono contento di essere invecchiato con un numero incalcolabile di ricordi belli e una grande famiglia che mi circonda».
Si ricorda il momento in cui ha detto: «Ok, ce l’ho fatta!»?
«Sì, il giorno in cui la band ha potuto comprarsi una grande macchina per viaggiare al posto di un vecchio van scassato e siamo stati pagati 100 sterline per il concerto di quella notte e poi ci hanno fatto trovare un’oncia di hashish nel camerino».
Eravate consapevoli di aver creato qualcosa di nuovo?
«Non inizialmente. Ci siamo accorti che stavamo andando nella direzione giusta dopo aver visto la reazione del pubblico la prima volta che abbiamo suonato il brano Black Sabbath. Fino a quel momento eravamo soltanto un’altra cover band blues».
C’è una canzone dei Black Sabbath che ama particolarmente?
«Dipende dallo stato d’animo in cui mi trovo: Changes è quella che voglio ascoltare se sono di buon umore; Into the Void quando sento quello che sta succedendo nel mondo».
La copertina del vostro secondo album, “Paranoid”, è veramente folle: dei tizi sfocati e come in “slow motion” nella notte con uno scudo, una scimitarra e un casco in testa!
Sembra rimandare a una specie di sdoppiamento della personalità ma in qualche modo funziona. Chi ha avuto questa strana idea?
«Non fummo consultati in alcun modo riguardo alla copertina.
Quando ce l’hanno mostrata non piaceva a nessuno, pensavamo che fosse uno scherzo, specialmente dopo la grande cover del primo disco (quella della donna, forse una strega, davanti a una casa nella foresta, ndr)».
Ma eravate interessati o no alla magia nera? So che pur avendo un nome come Black Sabbath e parlando di certi temi nelle canzoni avete sempre negato…
«Io sono stato allevato in una famiglia cattolica molto rigorosa, così ero interessato a tutto ciò che aveva a che fare con religione e spiritualità e infine iniziai a interessarmi di occulto. Una notte però ho avuto un’esperienza orribile mentre ero a letto: ho visto un’apparizione alla finestra della mia camera che ho preso come un avvertimento contro il farmi coinvolgere nella magia nera.
Da questo è nato il testo della canzone Black Sabbath che ha dato anche il nome della band. Quel nome l’avevo preso da un film ( I tre volti della paura del nostro Mario Bava, pubblicato all’estero con il titolo, appunto di Black Sabbath, ndr)».
La canzone parla di “A figure in black which points at me” dicendo poi “Satan’s sitting there, he’s smiling": avete avuto problemi per quello che viene considerato uno dei primi testi a citare esplicitamente il demonio?
«Solamente in alcuni stati del Sud degli Stati Uniti dove c’era della gente che protestava fuori dai luoghi dove si tenevano i nostri concerti».
Anche i Led Zeppelin furono accusati di essere satanisti: Jimmy Page era anche un grande collezionista di oggetti di Aleister Crowley. Ne avete mai parlato?
«No, mai. Io non sono mai stato un appassionato di Crowley».
Prima diceva che una delle sue canzoni preferite è “Changes": è un pezzo che si trova in “Vol 4” di cui sta per uscire il box rimasterizzato con anche varie versioni dei brani che non sono apparse sul disco originale. Può raccontarci come è nato questo brano, diverso da tutti gli altri vostri di cui lei ha scritto le parole e parte della musica?
«Tony si era appena lasciato con la sua ragazza e Bill Ward (il batterista,
ndr) stava divorziando. Un giorno Tony si è seduto al piano e ha iniziato a suonare. Io mi sono innamorato di quello che stava facendo perché rappresentava perfettamente quel senso di melanconia che stavamo vivendo in quei giorni e così ho scritto un testo che andava in quella direzione: “I’m going through changes” diceva. No, le cose non sarebbero più state come prima».
Il cambiamento in ogni possibile senso è infatti per me il cuore di “Vol 4": in musica, tematiche, testi. Era la conseguenza del fatto che ognuno di voi spingeva in direzioni diverse, l’uso di droghe o entrambi?
«Nasceva tutto dal fatto che vivevamo insieme, potevamo parlare di più delle cose e provare diverse vie musicalmente. Eravamo all’apice del successo e ci sentivamo a nostro agio nello sperimentare più di quanto avessimo mai fatto».
Avete praticamente creato il metal e influenzato moltissimi altri generi dal punk al grunge, ma chi ha influenzato voi?
«Noi abbiamo iniziato come una blues band. Io amavo il blues e un certo jazz: i primi due album che ho comprato quando avevo 11 anni sono stati uno di Dizzy Gillespie e l’altro di Muddy Waters. Tony era ispirato da Django Reinhart e Joe Pass e Bill Ward da Buddy Rich e Gene Krupa».
Lei ha scritto la maggior parte dei testi della band, sempre avvolti in un’aura misteriosa. Uno dei più belli e inusuali per come fa entrare subito l’ascoltatore nel vostro mondo è “Paranoid” con il verso iniziale che dice: “Finished with my woman ’cause she couldn’t help me with my mind” ("L’ho fatta finita con la mia donna perché non poteva aiutarmi con la mia mente"). Come le è venuto fuori?
«Soffrivo di depressione senza sapere che cosa fosse. Non avevo abbastanza soldi per mangiare in maniera adeguata e questo stava compromettendo la mia salute sia fisica che mentale. Credevo che quello stato d’animo in cui mi trovavo fosse una normale parte della vita, così il mio modo di cercare di curarlo è stato raccontare le sensazioni attraverso cui stavo passando: quel verso, quella canzone, è nata così».
Oggi invece cosa la fa stare bene?
«Mia moglie, i miei figli, i miei nipoti, i miei cani e gatti e la mia squadra, l’Aston Villa (è nato ad Aston, ndr)».
Quali sono le cose più interessanti dei nuovi box-set speciali che stanno uscendo, “Paranoid” e “Vol 4”?
«Le tracce dal vivo per me sono molto interessanti: ci sento dentro una particolare atmosfera che non si può riprodurre».
Ci sono possibilità che possiamo ascoltare i Black Sabbath in un nuovo album o vederli dal vivo?
«No. È impossibile!».