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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

12QQAFM11 La storia di Emmett Till, il 14enne linciato nel 1955 per aver fischiato a una donna bianca


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Al centro ci sono due fatti, due assassinati, due ingiustizie. La prima è la morte del quattordicenne Emmett Till, linciato nel 1955 per aver fischiato a una donna bianca; ai funerali la madre tenne la bara scoperta perché il volto maciullato del figlio fosse visibile a tutti, e grazie a questa straziante generosità il caso ebbe un clamore internazionale, una canzone da Bob Dylan e un’influenza importante nella campagna per i diritti civili degli afroamericani.
La seconda storia è meno nota ma strettamente collegata. Il padre di Emmett, il soldato Louis Till, era stato impiccato dieci anni prima dalla corte marziale per stupro e omicidio; la condanna, citata fra l’altro da Ezra Pound nei Canti pisani, ebbe un ruolo decisivo nell’assoluzione degli assassini di Emmett, “giustificati” dall’aver tolto di mezzo il figlio di un criminale.
John Edgar Wideman, voce potente della letteratura afroamericana, ha cercato e analizzato tutti i dati recuperabili della seconda storia, e nel 2016 ha pubblicato Scrivere per salvare una vita, sottotitolo La storia di Louis Till, ora uscito in Italia per minimum fax: un libro inclassificabile come l’autore stesso, un po’ Spike Lee un po’ Truman Capote (quello di A sangue freddo), attratto in egual misura dal romanzo e dal memoir, dalla descrizione pacata e dall’invettiva, dal referto documentale e dal flusso di coscienza. È letteratura che indaga, negli scartafacci dei tribunali e nel fondo delle anime, alla ricerca di una verità in nome della quale Wideman non esita a utilizzare il suo contrario, l’invenzione. «Nulla è più vicino alla verità della verità stessa», scrive programmaticamente, «ma la verità è che neanche la verità è davvero vicina alla verità. E così inventiamo la finzione. In qualità di scrittore alla ricerca della verità su Louis Till, ho scelto di concedermi alcune prerogative – licenza potrebbe essere una parola più adeguata. Mi sono assunto il rischio di lasciare che la mia finzione narrativa entrasse nelle storie vere di altre persone. E, per correttezza, ho permesso che le storie di altre persone sconfinassero nella realtà della mia». Perciò i ritagli di stampa, le pagine ingiallite di un decrepito dossier militare, i fermoimmagine sul nastro di un vhs s’incastrano nella sceneggiatura di possibili ricostruzioni, intersecate da ricordi personali, a creare continue risonanze. «Sono colpevole di immaginare scene, suoni, parole», scrive Wideman in un altro passo. «Mie. Le costruisco io. Potrebbero essere quelle giuste, o forse no. È successo. È la verità».
Certo, il cuore pulsante del volume è lo sdegno per un’America razzista e assassina, che ha sfruttato i figli neri per il tornaconto dei bianchi, utilizzandoli alla bisogna come raccoglitori di cotone o carne da cannone, vittime sacrificabili alle logiche della caserma o perverso trastullo per giovinastri violenti. Ma lo spessore del libro va oltre la bandiera della rivendicazione afroamericana, che ne farebbe, per quanto vibrante, solo un pamphlet, e cerca di attingere autenticità dalle ferite del proprio vissuto. Lo stesso autore, professore di letteratura nelle università del Wyoming, della Pennsylvania, del Massachusetts e alla Brown, ha avuto un fratello in galera per quarant’anni, e un figlio omicida tuttora in carcere, una vita dunque divisa fra sapienza accademica e violenza di strada, due esperienze impetuose che dentro la sua penna cercano da anni di incanalarsi e trovare una foce nel mare della giustizia. Però il libro non si adagia sui binari confortevoli del giallo. Quando le ricostruzioni e le congetture sembrano preludere a una scoperta risolutiva, dai documenti faticosamente cercati sbucano nuovi interrogativi. Tanto che la ricerca del documento d’epoca assume a tratti il fascino metafisico, alla Patrick Modiano, di un’investigazione apparentemente fine a se stessa che diventa un sondaggio dell’enigma esistenziale, tanto più astratto e universale quanto più sembra dettagliato e circoscritto: «Il documento che ho ricevuto dagli archivi governativi in Virginia è un miscuglio di questo e di quello, che a volte ha un senso, a volte no. Come la storia. La storia in generale o la storia personale di ogni individuo in particolare. La mia per esempio. O la tua. La nostra».
Al lettore italiano farà poi una certa impressione ritrovare i nomi di località come Livorno, Aversa, Civitavecchia e Metato, che è una frazione di Camaiore. Perché Louis Till stuprò e uccise (o, almeno, di questo venne accusato) durante la liberazione d’Italia, impiccato da quello stesso esercito americano a cui si era dovuto giocoforza arruolare.
Nota di merito a Dora Di Marco, che nel tradurre il libro si è dovuta fare strada fra prosa giornalistica, slang da strada, rapporti militari, documenti che sembrano veri e sono finti – e viceversa.