Robinson, 13 febbraio 2021
29QQAFA10 Scrivere al café
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In un magnifico romanzo, Il palazzo dei sogni, scritto ai tempi di un regime fra i più duri e dogmatici del mondo, lo scrittore albanese Ismail Kadaré, raccontava di un Palazzo appunto nella capitale dell’Impero ottomano, dove in un archivio venivano schedati i sogni dei sudditi. Quel libro era un’allegoria del potere comunista che pretendeva di esercitare il controllo totale sulla vita di ogni individuo del suo paese e delle vie per cui si faceva carriera o si cadeva in disgrazia. A Kadaré, nato nel 1936 ad Argirocastro, accademico di Francia, vincitore del Man Booker Prize, del Premio del Principe delle Asturie e titolare di altre prestigiose onorificenze, è capitato più volte di essere censurato, costretto a umilianti autocritiche, altre volte di godere invece di attenzioni lusinghiere da parte delle autorità. Autore all’età di diciotto anni di due poesie su Stalin, quei versi gli spalancarono le porte di riviste e case editrici di Tirana, nonché una borsa di studio nel 1958 a Mosca, città in cui, paradossalmente, imparò cosa fosse la libertà e che rapporto ha la libertà con la letteratura.Tutto questo e molto altro è narrato in Le mattine al Cafè Rostand, nella traduzione da Liljana Cuka, una raccolta di affascinanti racconti a sfondo autobiografico. Da grande creatore di miti, arcaici e atemporali (si veda, per fare un solo esempio La città di pietra), Kadaré evita di indicare le date delle vicende di cui scrive. Così le memorie diventano letteratura.Succede dunque, che un giorno, l’autore può partire per Parigi. Il permesso giunge inaspettato, si basa forse su un equivoco, su un invito che nessuna ha visto ed è lecito sospettare che non ci sia mai stato. L’atmosfera kafkiana fa parte del vissuto albanese ai tempi del comunismo. Parigi poi è un archetipo. Capita a chiunque arrivato per la prima volta nella capitale francese di sentire di averla già conosciuta, perché è «una di quelle cose che, prima di manifestarsi, esistono dentro di te». Parigi poi è la civiltà dei caffè: luoghi di ritrovo, certo, ma anche posti dove si scrive fra gli sguardi degli astanti. Un’attività in apparenza solitaria e intima, esposta però al pubblico. Ci sono in quelle pagine le descrizioni dell’ambiente intellettuale, vicende di scrittori celebri con le loro manie, gelosie, narcisismi: racconti divertenti e arguti. La vera perla è la storia di un filmato fatto assieme a Roman Polanski e Angelin Preljocaj, uno dei più importanti coreografi del mondo. Preljocaj era nella pancia della madre quando lei fuggì dall’Albania in Occidente. È albanese? Lui sostiene di sì. Ma con Kadaré parla in francese. E Polanski? È francese? Polacco? Concordano sull’unico fatto certo: sono artisti. Danza, cinema, letteratura. Una lezione sull’identità fluida, fortissima proprio perché basata su opere compiute e non solo sul certificato di nascita, o sangue. Come si diceva, nel 1958, il ventiduenne e promettente scrittore viene mandato a Mosca, a studiare all’Istituto Gorkij. In quel luogo, grazie ai docenti sovietici, dovrebbero essere elaborate le strategie per la definitiva distruzione della” letteratura decadentista” ( tutto quello che non è il realismo socialista ma soprattutto il trio Kafka -Proust – Joyce). Ma, ovviamente, i professori sono bravi, i compagni del corso intelligenti e dotati di capacità critiche e in più è l’anno in cui uno” scrittore decadente” russo Boris Pasternak riceve il Nobel per il suo Dottor Zivago, pubblicato un anno prima in Italia da Feltrinelli. Pasternak è costretto dal regime a rinunciare al premio. Ma, intanto, il giovane Kadaré ha occasione di osservare la campagna di odio sui mass media ufficiali contro lo scrittore. Ma può anche assistere alle discussioni fra persone che non hanno paura. Nel 1960 torna a Tirana, dopo la rottura dei rapporti fra l’Albania e l’Urss (Tirana accusa Mosca di tradimento per aver smantellato il culto di Stalin) e lui stesso è, per via di quel soggiorno, in odore di decadentismo. Avrà d’ora in poi difficoltà a pubblicare i suoi libri C’è una lezione che più tardi Kadaré avrà tratto dagli scritti di un altro Nobel russo, Iosif Brodskij: «La vera letteratura (…) poteva essere annientata dalle stesse mani degli scrittori». Intendeva il cinismo di coloro che descrive più come agenti della polizia segreta che letterati. Fra le cose di rilievo: Kadaré adora il Macbeth di Shakespeare, ne è ossessionato fin da bambino, ma quel dramma in certi periodi veniva censurato perché non si doveva parlare della malvagità del potere. Toccanti le pagine dedicate al poeta Frederik Rreshpja che nelle galere trascorse 17 anni, e morì poverissimo, folle, in mezzo a una strada.Peccato che l’editore non abbia pensato di mettere in fondo al libro un vocabolario per spiegare chi sono i tanti scrittori e poeti citati. Sarebbe d’aiuto per il lettore.