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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

Eco e i giornali


Per Umberto Eco i giornali erano una cosa terribilmente seria. Così seria che il torto più grande che si poteva infliggere a un lettore era annoiarlo. Il ritratto del massmediologo che scrive sui media non può prescindere dai suoi pastiches, dalle falsificazioni letterarie, dall’inesauribile gioco colto e dal cannocchiale rovesciato che mostra la grandezza morale di Franti o trasforma Mike Bongiorno in eroe della mediocrità. Ma” il lasciatemi divertire” è ribadito con troppa ripetuta insistenza perché ci si possa credere fino in fondo. E non ci si accorga che per oltre mezzo secolo Eco ha svolto il ruolo di testimone critico. O maestro di quotidiana” diffidenza”, parola che gli piaceva molto. Sempre indossando la giacca da camera, al posto dell’abito professorale. E scegliendo di mettersi “dietro” o “di lato”, mai di fronte ai fenomeni culturali. Perché la prospettiva più prevedibile è quella meno rivoluzionaria.
«A mio padre che mi ha insegnato a non crederci. E a mia madre che mi ha insegnato a dirlo». Era già un programma la dedica del volume con gli interventi giornalistici degli anni Sessanta, Il costume di casa, dal titolo volutamente dimesso. Il modo migliore “per dirlo” non poteva sfuggire all’ironia. Uno stile poco paludato ne aveva caratterizzato fin dal principio l’impegno militante sulle colonne dell’Espresso, dove intensificò la collaborazione dopo l’arrivo” dell’avanguardia in vagone letto” ( il Gruppo Sessantatré in una sua fulminante definizione). Di quell’Italia arretrata sporta sulla modernità, niente sfuggiva alla sua lente capovolta, il telegiornale anestetizzato, il kitsch quotidiano, il fumetto fascista, il risveglio culturale della destra, le ipocrisie del moderatismo, le insidie della stampa devozionale, la tolleranza repressiva e la repressione tollerante. Dei “fenomeni apparentemente innocui” tendeva a mostrare i congegni nascosti e quindi procedere alla decostruzione – qui era evidente il riflesso dei suoi studi teorici di semiologia – ma l’intenzione andava oltre la critica intellettuale per tradursi in gesto politico. «La pratica della diffidenza», confidava Eco, «ha un suo fondo che non è soltanto scettico e distruttivo ma ospita qualche speranza e una ragionevole fiducia nell’intervento pratico». Ci si diverte – e si diverte il lettore – senza rinunciare a un servizio civile. «Bene o male funziona. E a qualcuno serve», annotava con soddisfazione.
L’attitudine all’elzeviro e alla falsificazione letteraria s’era manifestata alla fine degli anni Cinquanta sulla rivista Il Verri, dove Eco faceva il verso a Nabokov o al nouveau roman nella rubrica Diario Minimo, anticipatrice di un nuovo genere narrativo. Qui era nata la convinzione che «una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un’ombra di sospetto sulle cose molto serie – e tale è la funzione seria della parodia». In un paese ancora culturalmente imbalsamato, Eco l’avrebbe pagata cara in termini accademici, come confessa nel novembre del 1975 in una lettera inedita al direttore dell’Espresso Livio Zanetti. In realtà non c’era contraddizione tra la ricerca universitaria e l’impegno militante, all’incrocio dei quali sarebbe nato l’Umberto Eco intellettuale pubblico. Ma forse era lui il primo a diffidare di questo ircocervo che, se da un lato veniva acclamato negli avamposti della semiologia, dall’altro si ritrovava a fare in redazione” il commando alla giornata”, pronto a sfornare “un intervento sulle Brigate Rosse, un pezzo sulla pornografia o sulle corna di Leone”. Schizofrenia di Eco è il titolo del paragrafo della missiva a Zanetti dedicato al suo “io diviso”. «Saprei scrivere ottimi sketches per Coki e Renato e poi scrivo il Trattato di Semiotica. Non vedo perché non fare l’uno e l’altro, ma me ne dicono di tutti i colori. La mia attività pubblicistica ha ritardato di dieci anni la mia andata in cattedra. E quindi ho sempre dovuto giocare di compromesso, pezzi leggeri e polemici ma non tanto, e non sempre», sotto l’eterno ricatto dell’accademia pronta a crocifiggerlo alla prima citazione sbagliata. «Che fai?», gli domandò una volta un amico incontrandolo sul treno. «Faccio Umberto Eco», fu la risposta, niente affatto compiaciuta. Il complesso di Charlie Brown, che «quando si sente impopolare vuole chiarire», ogni tanto tornava a riaffacciarsi.
Nel suo inquieto rapporto con i giornali, un nuovo assestamento sarebbe arrivato nel marzo dell’ 85 con La Bustina di Minerva, appuntamento settimanale sull’Espresso ( poi quindicinale) finalmente libero dalla tirannia del caporedattore e del rigaggio ballerino: in fondo per Eco era la rubrica la misura ideale, sempre fedele allo stile occasionale, come di pensieri annotati per caso sulla bustina dei fiammiferi. Anche la collaborazione a Repubblica – fino alla fine la sua casa, dopo il Manifesto e il Corriere della Sera – aveva un passo più meditato rispetto alle impellenze del quotidiano, nell’alternanza tra comico e tragico, dai Peanuts alla violenza del terrorismo, dalla Tv di Guglielmi ai processi insabbiati della” strage di Stato”, Piazza Fontana. Al pari delle sue amate Bustine, pur nella giocosità esibita, gli interventi su Repubblica nascono spesso da uno scatto di indignazione. E dall’urgenza di dire ciò che non va.
Un sorriso sempre più malinconico accompagna i mutamenti vorticosi degli anni Novanta, con l’avanzare della destra e il riaffiorare del “fascismo eterno”. Insieme alla geografia politica andava cambiando il mondo dei giornali, scaduto a mercato della notizia ammorbato dalle fake news. Forse era troppo anche per il massmediologo, che alla misura del saggio pensoso, per raccontare un’informazione fondata sulla falsificazione, avrebbe preferito il registro narrativo del grottesco. L’ultimo romanzo, Numero zero, è lo specchio deformato di un paese irredimibile. E certo non gli mancavano spunti dall’attualità, con i giornali ridotti a macchine del fango per difendere gli interessi dell’editore divenuto padrone d’Italia.
Testimone del suo tempo, Eco non ha mai rinunciato a prendere posizione, fino ad allontanarsi dallo spettro del colosso editoriale di Silvio Berlusconi per seguire Elisabetta Sgarbi nella nuova avventura della Nave di Teseo. Non credeva nei fatti separati dalle opinioni, ma in un giornalismo critico e schierato, «che non fa finta di dire la verità, ma ci dice ( assumendosene la responsabilità) quello che dovremmo volere». Sempre tra un calembour e un altro, giocoliere mai esausto ( come lo ritrae Pericoli), alle prese con questioni troppo serie per dirle in tono grave.