Robinson, 13 febbraio 2021
Umberto Eco visto da stefano Bartezzaghi
C’era una volta l’alto e c’era una volta il basso, ma la loro fiaba oggi è finita. È finita, anche se si può dubitare che la clausola ci abbia proclamato “felici e contenti”. È finita, anche se qualcuno che pretenda di restaurarla c’è sempre e fa del razzismo o snobismo dal presunto alto o innesca risentimento dal presunto basso. Beninteso, l’alto e il basso di cui si sta parlando non sono ceti, classi, caste, fasce di reddito o comunque gerarchie sociali: queste altre sono fiabe che continuano a narrare le loro vicende, sempre più crude. Ci si intende piuttosto qui riferire esclusivamente all’alto e basso dei consumi culturali, all’epoca in cui stabilire gerarchie sull’asse verticale pare arbitrario e poi del tutto vano, tra Bibbie a fumetti, deficienti che si professano filosofi, giallisti sul Parnaso, accademici che fanno della trash tv, Ferragni agli Uffizi, poeti anarco- gramsciani sul palco di Sanremo, Ian Fleming in edizione Adelphi, il tutto neppure sempre bastevole a fare scalpore o anche solo notizia.
Nel 1954 il ventiduenne Umberto Eco vinse un concorso che anziché a insegnare filosofia medievale come pareva destinato dai suoi studi lo portò alla neonata tv di italiana, per occuparsi di programmi vuoi su Michel Foucault o vuoi con Mike Bongiorno, oppure per dialogare con Paolo Poli a proposito di Edmondo De Amicis, avendone Eco messo in satira l’allora ancor intoccabile Cuore. L’alto e il basso già lì non si distinguevano più tanto bene. La tv – chiamata Mamma Rai perché nutriva, soccorreva, allevava – era il luogo in cui con maggior evidenza si combinavano mescolanze e le si combinava proprio perché venissero esibite: era in alto e si rivolgeva al basso anche per elevarlo, non essendo mai troppo tardi. Ebbene, Eco era lì. Televisione, editoria libraria (come funzionario di Bompiani), giornalismo (come collaboratore del Manifesto, dell’Espresso e poi del Corriere della sera e di Repubblica), infine narrativa: tutti luoghi in cui una preparazione accademica abbastanza tradizionale (nella forma, perché nei contenuti, per esempio, non era già più crociana) come la sua doveva confrontarsi con linguaggi più veloci, più superficiali, divertenti e insomma “bassi”.
Si trattava di inventare tecniche e pratiche nuove, nuove forme di professione intellettuale, ma anche nuove discipline in cui studiare quella stessa nuovissima situazione socioculturale. Venivano dunque buoni Gramsci, i vecchi formalisti russi, i nuovi strutturalisti francesi. Sulle prime poterono sembrare provocazioni un po’ circensi, quelle di paragonare gli eroi dei poemi eroicomici a quelli di Salgari o far confluire l’Übermensch di Nietzsche assieme al Superman della DC Comics nella formula del “superuomo di massa”. Ma è proprio di fronte allo scandalo sollevato dai moralisti di allora che si vide come la deprecazione della società dello spettacolo fosse essa stessa parte dello spettacolo. Portare l’alto in basso o il basso in alto era un’illusione paternalistica, un’ipocrisia Midcult o entrambe le cose. La vera opposizione non era tra un vero e proprio alto e un vero e proprio basso, bensì fra l’arrocco apocalittico di chi rifiutava la cultura di massa (e lo diceva usandone gli strumenti) e l’incanto integrato di chi l’accettava acriticamente. Quello che occorreva era essere trasversali.
La semiotica – la disciplina metodologica e interdisciplinare di cui Eco fu tra i pionieri con Roland Barthes, Algidas Greimas, Thomas Sebeok, Paolo Fabbri, Roman Jakobson, Juri Lotman – nacque proprio come uno sguardo capace di passare per tutto lo spettro dei sistemi sociali di significazione, e considerarli non per la loro rispettiva e presunta “altezza”, o “nobiltà” ma per il funzionamento. Cosa si può tradurre da un linguaggio all’altro? Quanta libertà interpretativa si ha? Una teoria del testo deve essere applicabile a Dante come a Topolino, e non per provocazione d’accostamento ma perché sono appunto due testi, allo stesso titolo anche se non certo dello stesso genere.
Lo sguardo (perdonate la rima) sbieco appare come losco e della semiotica si è infatti molto diffidato. Oggi poi nuove chiusure specialistiche sono favorite dalla burocrazia universitaria e ministeriale, da spinte corporative mai del tutto esaurite, da irresistibili pigrizie mentali. Anche sentirsi l’alto (o anche il basso) di qualcuno è una tentazione ricorrente. Della Corazzata Potemkin potete pensare quello che ne pensava Fantozzi o quello che ne pensava il suo cinefilo dirigente e mettervi così in basso o in alto. A definirla invece come un testo e a studiarla si rischia di capire come funzionano le gerarchie culturali e come non sia impossibile apprezzare – di traverso – sia Villaggio sia Ejzenštejn, per quello che ognuno di essi può in effetti dare e dire.