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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

Autobiografia di Umberto Eco, morto 5 anni fa

(Testo inedito estratto da : La
filosofia di Umberto Eco La nave di Teseo, edizione italiana a cura di Anna Maria Lorusso, pagg.
900, euro 25, in libreria dal 18 febbraio)


Sono nato ad Alessandria, nel nord- ovest della penisola italiana, città storica fondata nel 1168 come parte della resistenza dei comuni italiani all’imperatore Federico Barbarossa, una storia che avevo intenzione di raccontare nel mio romanzo Baudolino. Dal carattere dei miei concittadini ho imparato la virtù dello scetticismo: malgrado le loro origini e la bravura con cui avevano resistito all’assedio dell’Imperatore, non hanno mai avuto alcun entusiasmo per alcuna virtù eroica. Antiche leggende dicono che san Francesco passò per la città e convertì un lupo. Come alcuni sapranno, pare che san Francesco abbia convertito un lupo anche a Gubbio, in Umbria: ma, mentre Gubbio ha costruito su questo fatto la sua fama, gli alessandrini se ne sono dimenticati. Forse per paura di sembrare sbruffoni, o forse perché non credono nelle leggende. Lo scetticismo implica un costante senso dell’umorismo, per mettere in forse anche le cose in cui si crede sinceramente. Può darsi che questo spieghi molti casi in cui ho ironizzato, o addirittura parodiato, testi sui quali avevo scritto con grande convinzione. Per esempio, ho fatto un’appassionata analisi delle opere di James Joyce e poi, in una delle parodie che compaiono nel mio Diario minimo, mi sono divertito a portare all’assurdo molta critica joyciana. Non prendersi mai troppo sul serio mi è sempre sembrato un giusto atteggiamento filosofico. I miei genitori erano piccolo- borghesi con qualche buona lettura fatta nella loro giovinezza, ma in casa nostra non circolavano molti libri. Sono stato, al contrario, educato alla lettura dalla mia nonna materna e, indirettamente, dal mio nonno paterno. La nonna materna era una donna senza istruzione ( credo che avesse completato solo i cinque anni di scuola elementare), ma era una lettrice appassionata: si era abbonata a una biblioteca circolante e leggeva avidamente, e poi mi passava i libri che le erano piaciuti. Non faceva grande distinzione tra letteratura e romanzi da quattro soldi, tra Stendhal e Dumas. E così all’età di dodici anni mi ha fatto leggere sia Le père Goriot di Balzac che libri tremendi che non valevano niente.
Mio nonno paterno era stato tipografo e, andato in pensione, aveva iniziato a rilegare libri. È morto quando io avevo sei anni, ma ricordo alcune visite a casa sua dove, mentre i miei genitori parlavano con i miei nonni, io esploravo l’appartamento e trovavo, in fogli stesi da rilegare, alcuni romanzi ottocenteschi splendidamente illustrati. Mi era rimasta particolarmente impressa un’edizione ottocentesca de I tre moschettieri illustrata da Leloir. Pochi anni fa l’ho ritrovata nel catalogo di un libraio antiquario, l’ho comprato seduta stante e, sfogliandolo, mi sembrava di riscoprire qualcosa che avevo letto solo il giorno prima. Quando mio nonno morì, molte persone che gli avevano dato da rilegare qualcosa, non libri evidentemente o raccolte di riviste di grande valore, non vennero a reclamare quel loro materiale, e così tutto venne messo in un grande baule. Il baule finì nella cantina di casa nostra (forse perché mio padre era il primogenito). In quella cantina sono sceso molte volte, facendo scoperte favolose: insieme alle annate di vecchie riviste d’avventura, c’erano anche Il milione di Marco Polo e L’origine delle specie di Darwin. Ho lette così tante volte durante l’infanzia quelle pagine non rilegate che si sono consumate e forse sono state buttate via. Ancora oggi sfoglio i cataloghi antiquari alla ricerca di quelle collezioni e di quelle edizioni e non sono ancora riuscito a ricostruire quel baule dei miracoli.
Tutte quelle letture mi hanno incoraggiato a scrivere romanzi e nella mia infanzia ho scritto io stesso delle storie. La prima cosa che mi veniva in mente era il titolo, di solito ispirato ai libri d’avventura di quei tempi, che erano molto simili a I pirati dei Caraibi. Subito dopo disegnavo tutte le illustrazioni, poi iniziavo il primo capitolo. Ma siccome scrivevo sempre in stampatello, a imitazione dei libri stampati, dopo poche pagine mi stancavo e rinunciavo. Ognuna delle mie opere era quindi un capolavoro incompiuto, come l’Incompiuta di Schubert. Ma forse questa esperienza spiega perché, quando ero vicino ai cinquant’anni, sono diventato uno scrittore di narrativa. A sedici anni, naturalmente, ho iniziato a scrivere poesie, come ogni altro adolescente. Non ricordo se è stato il bisogno di poesia a far fiorire il mio primo amore (platonico e inconfessato) o viceversa. Il mix fu un disastro. Ma come ho scritto una volta – sebbene sotto forma di paradosso pronunciato da uno dei miei personaggi di fantasia – ci sono due tipi di poeti: i buoni, che bruciano le loro poesie a diciotto anni, e i cattivi, che continuano a scrivere poesie per tutta la vita. Evidentemente io appartengo alla prima categoria.Nato nel 1932, sono stato educato sotto il regime fascista. Il sabato bisognava mettersi in divisa e partecipare alle esercitazioni paramilitari; mi si insegnava che dovevo desiderare di morire per la mia patria e amare il Duce. Ricordo che solo una volta mi sono chiesto se davvero amavo il Duce o se ero solo un ragazzino senza cuore. Non riuscivo a capire, ma ho capito tutto in pochi minuti il 27 luglio 1943. Il giorno prima era caduto il fascismo, Mussolini era stato arrestato e quella mattina, all’improvviso, nelle edicole comparvero dei giornali che non avevo mai visto prima. Ciascuno recava un appello firmato dai vari partiti, che celebravano la fine della dittatura. Non bisognava essere particolarmente intelligenti per rendersi conto che quei partiti non potevano essere nati da un giorno all’altro, dovevano esistere da prima, ma evidentemente in forma clandestina. Di colpo ho capito la differenza tra dittatura e democrazia e questo, a undici anni, ha segnato l’inizio della mia ripugnanza per qualsiasi forma di fascismo. (…)Scrivere romanziMi considero un filosofo, anche se ho scritto di molti altri temi; e sono certamente un filosofo che ha anche scritto sette romanzi. Quest’ultimo fatto, date le sue dimensioni e il tempo che mi ha preso dalla fine degli anni settanta a oggi, non può essere considerato un incidente marginale. Tuttavia questa autobiografia intellettuale non ha riguardato i miei romanzi se non per brevi menzioni. So bene che alcuni di quelli che scriveranno su di me prenderanno in considerazione anche i miei romanzi, sia perché in essi trovano molti temi filosofici sia perché vedono questi scritti come un altro dei modi in cui ho filosofato. Devo dire che, quando ho iniziato a scrivereIl nome della rosa,anche se ho usato molti testi di filosofia medievale, non pensavo ci fosse alcun legame tra la mia scrittura letteraria e la scrittura accademica. In effetti ho preso la mia avventura narrativa come una vacanza. Ero certamente consapevole del fatto che, nella narrazione, avevo a che fare con questioni filosofiche, ma c’erano domande a cui la mia filosofia non poteva rispondere. Sulla sovraccoperta della prima edizione italiana era scritto, alla fine: «Se l’autore ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, nella sua maturità, che ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare». Parafrasando Wittgenstein avrei potuto scrivere: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve narrare». Non ho insomma pensato ai miei romanzi come alla dimostrazione di alcune teorie filosofiche.Sapevo bene che queste opere erano spesso ispirate a dibattiti filosofici, ma questi potevano contraddirsi a vicenda e, nel narrare, mettevo in scena quelle contraddizioni. Così è successo che molti dei miei lettori hanno trovato nei miei romanzi posizioni filosofiche. Ho accettato queste letture ma senza approvarle o respingerle, bensì partendo dal principio che a volte un testo è più intelligente del suo autore e dice cose che l’autore non aveva ancora pensato. In ogni caso, ammetto che neIl nome della rosac’è un dibattito sul problema della verità (ma nel modo in cui questo poteva essere stato visto nel XIV secolo da un seguace di Ockham in crisi); neIl pendolo diFoucaultc’è una polemica contro il pensiero occultista e le varie sindromi della cospirazione; ne Il cimitero di Praga la teoria della cospirazione è di nuovo l’argomento centrale mentre provo a mostrare la follia dell’antisemitismo; La misteriosa fiamma della regina Loana affronta problemi sulla memoria oggi studiati dalle scienze cognitive; L’isola del giorno prima si diverte a gettare uno sguardo nuovo sulle varie filosofie del periodo barocco e sul caso di un universo senza limiti nato con le scoperte della nuova astronomia;Baudolinoè una riflessione implicita sulla relazione tra verità e menzogna; e infine Numero zero è un dibattito implicito sul giornalismo e la verità fattuale. Ma qui preferirei trattare, in termini di estetica e teoria della narratività, ciò che potrei definire la mia poetica di narratore.Quando gli intervistatori mi chiedono «Come hai scritto il tuo romanzo?», di solito li interrompo e rispondo: «Da sinistra a destra». Ma è una battuta. In realtà dopo le mie prove di narrativa mi sono reso conto che un romanzo non è solo un fenomeno linguistico. Un romanzo ( come ogni narrazione che eseguiamo ogni giorno, spiegando per esempio perché quella certa mattina siamo arrivati tardi) usa le parole per comunicare fatti narrati. Ora, per quanto riguarda la fiction, i fatti o la storia sono più importanti delle parole. Le parole sono fondamentali nella poesia ( ed è per questo che la poesia è così difficile da tradurre, a causa della differenza di suoni tra due lingue diverse). Nella poesia è la scelta dell’espressione che determina il contenuto. In prosa accade il contrario: sono il mondo che l’autore sceglie e gli eventi che accadono in esso che dettano ritmo, stile e persino scelte verbali. Ecco perché in tutti i miei romanzi il mio primo tentativo è stato quello di progettare un mondo e progettarlo nel modo più preciso possibile, così da potermici muovere in totale sicurezza. (…) Il riso e la morteFino all’età di cinquant’anni, e per tutta la mia giovinezza, ho sognato di scrivere un libro sulla teoria del comico. Perché? Perché ogni libro sull’argomento non ha avuto successo. Ogni teorico del comico, da Freud a Bergson o Pirandello, spiega alcuni aspetti del fenomeno, ma non tutto. Questo fenomeno è così complesso che nessuna teoria è o finora è stata in grado di spiegarlo completamente. Quindi mi sono detto che mi avrebbe fatto piacere scrivere una vera teoria del comico, e in effetti ho scritto alcuni saggi sul comico e l’umorismo. Ma poi il compito si è rivelato disperatamente difficile. Forse è per questo motivo che ho scritto Il nome della rosa, un romanzo che parla del libro aristotelico perduto sulla commedia. Era un modo per raccontare in forma narrativa ciò che non ero in grado di dire in termini filosofici. Una volta ancora, «di ciò di cui non si può parlare, si deve narrare». Nella filosofia antica si diceva (e Rabelais lo ripeteva) che il riso era il proprium degli uomini, perché solo gli uomini hanno la prerogativa della risata. Gli animali sono privi di umorismo. La risata è un’esperienza tipicamente umana. Pensiamo che questo sia collegato al fatto che siamo gli unici animali che sanno che devono morire. Gli altri animali possono capirlo solo nel momento in cui muoiono, ma non sono in grado di articolare qualcosa come l’affermazione «Siamo tutti mortali». Gli umani invece sono in grado di farlo, e probabilmente per questo ci sono religioni e rituali. Ma il vero punto è che, dal momento che sappiamo che il nostro destino è la morte, ridiamo. Ridere è il modo radicalmente umano di reagire al senso umano della morte. In questo modo il comico diventa un’occasione per resistere alle tragedie, limitare i nostri desideri, combattere il fanatismo. Il comico (sto citando indirettamente Baudelaire) getta una diabolica ombra di sospetto su ogni proclama di dogmatica verità. La preparazione alla morte consiste essenzialmente nel convincersi gradatamente che – come dice l’Ecclesiaste – tutto è vanità. Eppure, malgrado tutto questo, anche il filosofo riconosce un inconveniente doloroso nella morte. La bellezza del crescere e maturare è realizzare che la vita è una meravigliosa accumulazione di sapere. È quello che si chiama” esperienza”, per cui un tempo gli anziani erano considerati i più saggi della tribù e il loro compito era passare la loro saggezza ai loro figli e nipoti. È una sensazione meravigliosa rendersi conto che ogni giorno impari qualcosa in più, che i tuoi errori del passato ti hanno reso più saggio, e che la tua mente (mentre forse il tuo corpo si indebolisce) è una biblioteca che si arricchisce ogni giorno di un nuovo volume.Io sono tra coloro che non rimpiangono la giovinezza, perché oggi mi sento molto più realizzato di un tempo. Ma il pensiero che tutta quell’esperienza andrà perduta nel momento della mia morte, questo sì, è causa di sofferenza. Il pensiero che quelli che verranno dopo di me conosceranno quanto me, e ancora di più, non mi consola. È come bruciare la Biblioteca di Alessandria o distruggere il Louvre... Rimediamo a questa tristezza scrivendo, dipingendo o costruendo città. Eppure, per tanto che possa trasmettere raccontandomi e raccontando, anche se fossi Platone, Montaigne o Einstein, per tanto che scriva o dica, non potrei mai trasmettere la somma della mia esperienza, ad esempio i miei sentimenti nel vedere un volto amato o una rivelazione avuta guardando un tramonto. Questo è il vero inconveniente della morte, e anche i filosofi devono ammettere che c’è qualcosa di spiacevole nella morte. Come ovviare a questo inconveniente? Conquistando l’immortalità, dicono alcuni. Non spetta a me discutere se l’immortalità sia un sogno o una possibilità, per quanto piccola, se sia possibile vivere fino ai centocinquanta e oltre, se la vecchiaia sia semplicemente una malattia che può essere prevenuta. Mi limito a dare per possibile una vita molto lunga o infinita, perché solo in questo modo posso riflettere sui vantaggi della morte. Se potessi scegliere, vorrei vivere, diciamo ad infinitum. Ma pensando a me stesso non fra mille ma semplicemente fra duecento anni, inizio a scoprire gli svantaggi dell’immortalità. Se fosse concessa solo a me, mi vedrei scomparire d’intorno, uno a uno, i miei cari, i miei figli, nipoti e pronipoti. Lo strascico di dolore e nostalgia che mi accompagnerebbe per questa lunga vecchiaia sarebbe insostenibile. E se mi accorgessi di essere l’unico a conservare memorie in un mondo di smemorati regrediti a fasi preistoriche, come reggerei alla mia solitudine intellettuale e morale? Peggio ancora accadrebbe se la crescita della mia esperienza personale fosse più lenta dello sviluppo delle esperienze collettive, e vivessi con una modesta saggezza démodé in una comunità di giovani che mi supera in flessibilità intellettuale.Ma pessimo sarebbe se l’immortalità o una lunghissima vita fossero concesse a tutti. Vivremmo in un mondo sovrappopolato di ultracentenari ( o di millenari) che sottraggono spazio vitale alle nuove generazioni, e mi troverei piombato in un’atroce struggle for life, dove i miei discendenti mi vorrebbero finalmente morto. Chi mi dice che non mi verrebbero a noia tutte quelle cose che nei miei primi cento anni erano state motivo di stupore, meraviglia, gioia della scoperta? Proverei ancora piacere a rileggere per la millesima volta l’Iliade o ad ascoltare senza sosta il Clavicembalo ben temperato? Riuscirei ancora a sopportare un’alba, una rosa, un prato fiorito, il sapore del miele? Comincio a sospettare che la tristezza che mi coglie al pensiero che, morendo, perderei tutto il mio tesoro di esperienza sia affine a quella che mi prende al pensiero che, sopravvivendo, di questa esperienza oppressiva e ammuffita inizierei a provare fastidio. Forse è meglio continuare, per i pochi anni che ancora mi saranno dati, a lasciare messaggi in una bottiglia per quelli che verranno, e attendere quella che Francesco di Assisi chiamava Sorella Morte.