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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

1QQAFA30 Intervista a Elio Germano

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Un uomo solo, un attore, sul palco. Ha il volto di Elio Germano. «Entro alle vostre spalle come il peggiore degli incubi» sogghigna lui nell’incipit dello spettacolo La mia battaglia, il cui testo, scritto a quattro mani con l’attrice e drammaturga Chiara Lagani, ora è in formato libro edito da Einaudi (in uscita il 16 febbraio). Il sorriso di Germano, complice nell’abbracciare platea e lettore, spalanca dubbi sulla libertà di pensiero in un monologo che, almeno all’apparenza, dichiara guerra ai nei della società odierna, dalla retorica della politica incapace di intercettare il malcontento popolare all’assenza di meritocrazia. «Volevo mettere in scena un meccanismo manipolatorio», spiega Germano raccontando la genesi del testo. Tra slogan elettorali e inni a un ordine nuovo, il sottile gioco retorico tra attore e pubblico è in atto. Siamo a un passo dalla deriva, un incubo totalitario che sembra uscito tra le righe dalle istanze xenofobe e sovraniste che attraversano l’attualità.
Che cosa si aspettava, secondo lei, il pubblico da un monologo di Elio Germano?
«Abbiamo cercato di rivelare il meno possibile… Lo spettacolo era il tentativo di messinscena anche del mio personaggio. Mi piace coltivare il pensiero critico, è allarmante pensare che un attore, un leader venga seguito a priori. Ho cercato di mettere in discussione anche la dimensione dell’attore contemporaneo che deve far parlare di sé e diventare un opinion leader. Ecco, opinion leader, è tra le parole che più mi spaventano in questo periodo storico».
Come ha lavorato, insieme con Chiara Lagani, al testo?
«Volevo capire come il linguaggio possa diventare cinico e, attraverso la comicità, spingere chi ascolta ad appoggiare posizioni che non si condividono inizialmente. Questo mi spaventa molto, è per me da tempo un segnale di allarme. La possibilità che una persona, solo per il fatto di essere su un palco, possa agire sul pensiero collettivo. Quando ho portato a teatro La mia battaglia recitavo dove il giorno prima politici avevano fatto tappa per la campagna elettorale, magari utilizzando alcune delle parole che avevo incluso nel monologo. Scegliamo prima la bandiera e poi quello che rappresenta. Ho pensato, così, di far passare il male assoluto quasi fosse una risposta e ho avviato un confronto con Chiara Lagani che ha più volte trattato temi legati a derive totalitaristiche».
In questo esperimento corale che ruolo ha il pubblico o il lettore?
«È al centro. Accadeva spesso che lo spettacolo si spostasse dal palco alla platea, si accedevano dibattiti e facevo fatica, alla fine, a far sentire la mia voce. Questo è per me il teatro, ciò che amo e inseguo del teatro sia da pubblico che da attore e autore. L’idea che una cosa stia accadendo davvero come motore della drammaturgia. Un giorno una signora dalla platea si è alzata esclamando: “È finzione o realtà?”. Mi sembrava di stare in una rappresentazione di Pirandello. Sono stato davvero soddisfatto del risultato».
È come uno specchio….
«Ecco è questo il grande senso che secondo me dovrebbe avere ogni opera teatrale, artistica, cinematografica. Quando non può funzionare in termini monetari ma quando è funzionale, quando cioè instaura un dialogo e un gioco di specchi tra chi guarda e chi è sul palco. La mia battaglia era congegnato su questo, spero anche leggendo il testo sia evidente. Qualcosa che ci riguarda, noi lo guardiamo e ci riguarda. In ogni senso possibile».
A proposito nel monologo spuntano retoriche populiste e inquietanti demagogie…
«La classe politica si è formata sugli stessi testi da un centinaio di anni e adopera le stesse forme retoriche o i medesimi slogan in modo completamente trasversale. Lo slogan stesso sottende un grande pericolo: compattare, stringere, strozzare temi complessi in pochissime parole e questo equivale a suggerire interpretazioni diametralmente opposte. Quando parliamo di sicurezza possiamo declinarlo in leggi che sono tutto e il contrario di tutto, io posso sentirmi al sicuro se conosco e accolgo, ma c’è chi si sente al sicuro escludendo o in un contesto fortemente militarizzato. Rimpicciolire le questioni provoca una possibilità di manipolazione sempre più ampia».
L’allarme, dunque, citando il titolo della versione in VR de «La mia battaglia» è reale?
«Io credo che sia già in atto il meccanismo per cui ci si ritrova a essere parti di uno schieramento senza chiedersi il perché. Commentiamo i commenti, spesso andiamo a votare senza aver approfondito alcuna questione. C’è un processo di scollamento per cui siamo chiamati a esprimerci su ogni cosa e vediamo una politica che a volte non tiene contro della volontà popolare. Vedo già, purtroppo, istanze violente contro forme di non omologazione e diversità, lo possiamo chiamare fascismo o razzismo, è un’omologazione indotta dalla paura. Una deriva sociale pericolosissima. La volontà di omologarci a qualcosa senza pensare a cosa sia è ciò che ci ha portato alle dittature».
Abbiamo parlato di realtà virtuale, è un percorso a più livelli che esplora ancora?
«Sì. Sto lavorando a una rappresentazione in VR di Pirandello che debutterà al Teatro della Pergola non appena sarà possibile, un visore condurrà lo spettatore in un salone dove avviene una rappresentazione di Così è (se vi pare). La VR aumenta i piani di lettura, sono curioso dell’effetto che farà. A marzo, poi, inizierò le riprese del nuovo film dei fratelli D’Innocenzo, il cui titolo provvisorio è “America Latina”, li ho conosciuti tempo fa prima di recitare in “Favolacce”, scrivono moltissimo da anni e tutti progetti molto validi». —