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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

Intervista a Bernard Guetta. Parla della censura


Eurodeputato macronista, da quasi due anni. E giornalista, Bernard Guetta. Ci tiene molto: «Non si provi a mettere ex giornalista, anche perché scrivo ancora tanti articoli, pubblicati in diversi Paesi. E poi quella del parlamentare è una funzione, giornalista è il mio mestiere: l’unico che sappia fare». Ha 70 anni e cinquant’anni fa iniziò la sua vita nei media, anche corrispondente da dittature, nel blocco sovietico. Oggi guarda con preoccupazione ai limiti imposti ai media. Sempre di più, in tutto il mondo.
Cosa ne pensa?
«È un fenomeno che cresce, almeno al confronto con le speranze nutrite al momento della caduta del muro di Berlino. Allora in tanti (io no, a dire il vero) pensarono che la democrazia si sarebbe imposta inesorabilmente su tutto il globo. E con quella, la libertà d’informazione. Ora invece i limiti ai media, addirittura l’impossibilità di poter lavorare, aumentano in maniera spaventosa, pure in Stati dell’Unione europea, come l’Ungheria di Orban e la Polonia di Morawiecki. Certo, lì, prima della caduta del muro, la libertà della stampa non esisteva proprio. Lo so bene: ai tempi del colpo di stato del generale Jaruzelski ero corrispondente da Varsavia di Le Monde».
Vuol dire che in alcuni Paesi la situazione è comunque migliore rispetto a un certo passato?
«Oggi si difendono una democrazia e una libertà della stampa, che ancora un po’ esistono. Allora, non c’erano proprio. Nell’India di Modi i media sono sotto attacco, se si pensa alla situazione migliore che esisteva perfino dopo l’indipendenza. Nella Russia, credo si possa parlare di regressione rispetto ai tempi di Eltsin e agli ultimi anni di Gorbaciov, ma pure in quel caso Mosca ha vissuto tempi peggiori rispetto a quelli attuali. In generale dire che la situazione è peggiorata è vero e al tempo stesso falso».
La repressione è aumentata a causa dei social? Alcuni regimi hanno paura di una certa democrazia virtuale da loro imposta?
«Ovunque, anche in Russia, i social network sono diventati il bastione della libertà d’espressione e uno strumento di mobilizzazione. Ma i regimi autoritari e soprattutto quelli che in francese chiamiamo «démocratures» (parola che ingloba democrazia e dittatura) hanno imparato a bloccarli (basti pensare alla Cina). Li conoscono tecnicamente, trovano alternative proprie e manipolabili. Una rivoluzione come quella che si scatenò nella piazza Tahir al Cairo oggi sembra impensabile, perché il regime egiziano è più abile nel tenere sotto controllo la rete e i social. In ogni caso c’è un altro elemento che mina la libertà di stampa».
Quale?
«Le fake news. Nascono dagli ambienti del complottismo ma è anche un lavoro insidioso e metodico di infiltrazione nelle democrazie da parte dei servizi segreti di certi regimi, che utilizzano i social per diffondere le loro false informazioni. Sono gli stessi regimi che nei loro Paesi mettono una cappa sopra ai social network. Alle fake news ci si può opporre solo con le verifiche e il buon giornalismo. Perché i giornalisti servono ancora, eccome. La censura, invece, non serve a nulla».
Non crede che fake news e complottismo possano almeno in parte giustificarla?
«No, la censura è un punto di non ritorno per la democrazia. Il diritto all’informazione è uno dei diritti dell’uomo, fondamento della libertà».
Crede davvero che il suo vecchio mestiere abbia ancora un futuro?
«Un mio amico, Jean Lacouture, un grande collega, diceva: “Quando il giornalismo diventerà il mestiere di tutti, non sarà più il mestiere di nessuno”. Me lo disse una decina d’anni fa, vedendo l’evoluzione dei social: un loro aspetto negativo, se si vuole. Tutti diventano giornalisti e questa è la fine del giornalismo, che, invece, è un mestiere necessario».