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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

Le bambine vanno in guerra

Da anni l’opinione pubblica mondiale è a conoscenza dell’orribile pratica del reclutamento di bambini per combattere, ma sono in pochi a sapere che ben il 40% di loro sono bambine che oltre a essere usate come schiave sessuali si trovano costrette a dover imbracciare un fucile e uccidere. Inoltre i bambini vengono arruolati anche dagli eserciti regolari tenuti dalle convenzioni internazionali a salvaguardare i più deboli, in primis i bambini. Si tratta di una piaga che continua ad allargarsi: il numero di casi registrati è costantemente aumentato dal 2012 al 2020. La denuncia arriva dall’Organizzazione non governativa Intersos nella Giornata mondiale contro l’impiego dei bambini soldato. L’Ong ha lanciato anche la campagna twitter #Stopbambinisoldato per sensibilizzare maggiormente anche i giovani internauti.
Le testimonianze documentate dalle organizzazioni umanitarie provengono da 18 paesi in cui, dal 2016 a oggi, viene fatto uso sistematico di bambini soldato. La lista della vergogna comprende Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen. Federica Biondi, operatrice di Intersos, ha lavorato a lungo per il recupero di questi bambini e bambine che talvolta riescono a fuggire. “Vengono arruolate anche bambine di 11 anni dopo essere state rapite in seguito ad attacchi contro i villaggi dove vivono. Talvolta sia le bambine sia i bambini vengono plagiati dagli stessi guerriglieri o soldati regolari. In genere le organizzazioni umanitarie iniziano i percorsi di recupero dei bambini soldato dopo che i caschi blu dell’Onu o l’Unicef sono riusciti a ottenere il loro rilascio negoziando con i loro aguzzini”, spiega Biondi. Sul numero dei bambini soldato non esiste una statistica ufficiale ma solo stime. In questo momento a fare gli sguatteri nelle retrovie e a combattere in prima linea ce ne sarebbero centinaia di migliaia. “Per le bambine, spesso costrette a sposare i guerriglieri in ossequio alle tradizioni locali, la notte si trasforma in un incubo nell’incubo”, sottolinea l’operatrice. Altri bambini sono spinti ad arruolarsi dalla povertà e dalla necessità di sopravvivere. Intersos conduce, con il sostegno di Unicef, un progetto di reintegrazione di ex bambini soldato nella Repubblica Centrafricana, (uno dei paesi più colpiti da questo fenomeno) dove dal 2013 è in corso una sanguinosa guerra civile.
Tra i 180 bambini che stanno completando il percorso di reinserimento sociale e lavorativo c’è Sefaka. Si è arruolata nel gruppo Anti-Balaka dopo che un membro del gruppo armato Seleka ha ucciso i suoi genitori e l’ha costretta a un matrimonio combinato. Al termine di alcuni incontri di sensibilizzazione organizzati da Unicef per i gruppi armati di Kagabandoro, il suo generale ha deciso di lasciarla andare. “Mi sono unita al gruppo armato solo per rabbia. La vita con i ribelli è stata difficile, non sempre avevamo da mangiare ma io volevo continuare comunque per vendicare i miei genitori”, ha raccontato agli operatori umanitari. Grazie al programma di reinserimento, Sefaka ha imparato a cucire e adesso lavora nel suo villaggio, Bakongo. In questi giorni è in attesa di una macchina per cucire e altri materiali che le verranno forniti dal progetto. Anche i maschi possono desiderare di fare i sarti. Doungomou aspira addirittura “a lavorare in un grande atelier”. Da poco maggiorenne, originario del villaggio di Kagongo (Repubblica Centroafricana) Doungomou era diventato un bambino soldato nel 2014 quando uno dei gruppi armati che animano il conflitto interno al Paese, ha saccheggiato e bruciato la sua casa, torturato i suoi genitori e ucciso la sorella minore. “In seguito alla decisione di mio padre di fuggire nella grande foresta per supportare il gruppo Anti-Balaka, ho fatto lo stesso. All’inizio non avevo che un coltello, è stato durante un combattimento che sono riuscito a procurarmi una vera arma”. Per Doungomou e i suoi compagni, oltre ai combattimenti con gli altri gruppi, il problema principale era procurarsi da mangiare: “I capi ci costringevano a fare le rapine in cambio di cibo e a volte i commercianti ci sparavano contro”. Grazie al supporto dell’Onu il ragazzo ora si trova a Sibut dove frequenta un corso di cucito e ha imparato a realizzare abiti per bambini. Come erano lui e Sefaka prima che gli adulti rubassero loro l’infanzia.