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 2021  febbraio 13 Sabato calendario

In morte di Paolo Isotta

Alberto Mattioli, Stampa
Exit Paolo Isotta, classe 1950, napoletanissimo musicologo, critico, scrittore: guarda caso, morto il 12 febbraio, il giorno dell’incendio che nel 1816 distrusse il San Carlo, il teatro che amava di più. Aveva insegnato Storia della musica dal 1971 al ’94, quando lasciò «per progressiva intolleranza verso gli allievi attuali». Nel ’74, pubblicò un libro meraviglioso, I diamanti della corona. Grammatica del Rossini napoletano, diventando il critico del neonato Giornale. Nell’80 passò al Corriere della sera fra opposizioni e polemiche, dato che non rinnegò mai la sua fede fascista né, soprattutto, mai la nascose. Al Corriere rimase trentacinque anni costruendo accuratamente la sua fama di eccentrico bastian contrario, che tuttavia non era una posa, semmai una costante opposizione al suo tempo, nella musica e in tutto il resto. Era il classico recensore di cui non condividi nemmeno la punteggiatura, ma ammiri come la usa. Scriveva in una prosa forbita, latineggiante, ampollosa, spesso offensiva e sempre irresistibile. Insomma, si adorava detestarlo (e talvolta si detestava doverlo adorare). A un certo punto fu perfino bandito dalla Scala , scatenando un putiferio che dimostrò, se non altro, che perfino nei teatri d’opera c’è vita.
Tuttavia, la critica «militante» l’annoiava. Così ricominciò davvero a scrivere solo quando smise di farlo sui giornali. Il primo libro della sua seconda vita fu nel 2014 La virtù dell’elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro, una specie di autobiografia folle e divertentissima dove in una pagina leggevi di un oratorio di Scarlatti e in quella successiva delle prestazioni di una marchetta. Seguirono Il canto degli animali, poi La dotta lira. Ovidio e la musica e Verdi a Parigi. Una biografia di Totò è pronta, giri di bozze compresi, e sarà presto pubblicata da Marsilio; resterà purtroppo in grembo agli Dei il Rossini che vagheggiava. Si era rimesso perfino a scrivere sui giornali, il Fatto e Libero: talvolta, pubblicava su entrambi lo stesso pezzo, ma i direttori erano così contenti della sua firma che fingevano di non accorgersene.
Isotta viveva in un enorme appartamento napoletano con migliaia di libri. L’amore per gli animali era una delle sue caratteristiche più umane. I suoi avevano nomi operistici: il bassotto Ochs e la gatta Isaura (non quella evocata da Desdemona nell’Otello di Rossini ma la protagonista di Jacquerie di Marinuzzi, per il quale aveva un vero culto). Uomo di cultura mostruosa nel senso etimologico della parola, l’elenco dei suoi amori era lungo, quello dei disamori infinito. Forse era soprattutto un uomo affettuoso in cerca di affetto. 

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Giuliano Ferrara, il Foglio
Solo, ma nella sua casa con le porte di lacca cinese e la postazione dello scrivano sospesa sul grande ambiente librario e mondano, il suo orgoglio o la sua anima territoriale con la vista di Capri e la salsa alla genovese, Paolo Isotta è morto ieri di schianto, precisamente come aveva vissuto, insegnato, scritto, provocato, amato, odiato o disprezzato. Il critico musicale, poi musicista e sopra tutto scrittore, era un amico scontroso e ironico della ditta fogliante e frondista, almeno finché non diventò la casa del suo forse più intimo nemico, il grande musicologo Mario Bortolotto. Era uno di quei fascisti immaginari e vocazionali, nati fuori del proprio tempo, che hanno sfondato il muro intransigente eretto dalla gente perbene, e sono penetrati nell’establishment della cultura per vivificarlo, differenziarlo, vituperarlo, sbeffeggiarlo e subirne l’animosità e il rigetto impotente.        
Era la quintessenza dello spirito polemico il più intollerante. A chi non amava il “Rienzi” wagneriano rispondeva tranquillo: “Non sei all’altezza”. La sua non era una litigiosità d’ambiente, era una ambizione superbamente aggressiva, figlia di cultura, erudizione, talento e perspicacia poetica, in musica e altrove. La faziosità in Isotta era sentimentalismo, l’inimicizia il risvolto naturale del suo opposto, l’amicizia virile. Spesso confondeva le due, il suo veleno e il suo calore umano ne soffrivano allo stesso titolo. A un giovane scrittore wagneriano con cui aveva fatto baruffa, in una meravigliosa lettera al Foglio, proibì tassativamente di parlare della “morte di Isotta”, appellandosi tra l’altro alla religione di san Gennaro, e spiegò ai lettori che Isotta non esiste, esiste Isolde e solo Isolde, specie nell’accordo del Tristano e nel Liebestod. Amava la musica, era della più sensuale scuola napoletana, qualunque cosa questo voglia dire, adorava Virgilio e si dilettava a vivere con una generosa passione colta per gli animali, specie i bassotti che sono animali per modo di dire, diceva la sua devozione al sesso estremo, alla cocaina e alle “recchie”. Era la malizia incarnata, e Cesare De Michelis per la sua Marsilio intuì la serena grandezza del suo autobiografismo donandogli e donandoci il successo magistrale de “La virtù dell’elefante”, libro unico e capolavoro letterario destinato a lunga vita.         Paolo Isotta ha inseminato l’esistenza dei suoi difetti, delle sue ire spesso sconclusionate, del suo cattivo carattere, del suo temperamento manesco, e per questo non poteva che essere caro, sebbene indisponente, agli amici ribaldi e insofferenti. Ma quando inviava i suoi testi più esplosivi, per avere un parere, e in genere nella comunicazione elettronica, si firmava Kurwenal, il servitore go between che annunciò baritonalmente a Tristan l’arrivo di Isolde, un mediatore di bellezza e d’amore. Spavaldo teppista dell’arte suprema, quella che per Dante s’ascolta e non si intende, Paolo Isotta era un cristiano di fede e superstizione, un censore brutale di ignoranza e stupidità, un fazioso inveterato inaccessibile a ogni pappa del cuore, un buonuomo di genio curioso degli altri, fino a sconfinare ogni volta nella passione e inevitabilmente nel dolore. 

Sandro Cappelletto, Avvenire
«Il sangue del drago, in sé velenoso, bevuto da Sigfrido è fonte di conoscenza. Il veleno dei serpenti può diventare un farmaco. La seconda verità scientifica è nota da sempre; il primo fatto è un mito d’immemoriale antichità». Immemoriale: lui poteva permettersi di scriverlo. Ieri mattina, in modo del tutto improvviso, è scomparso a Napoli, la sua città, Paolo Isotta. Aveva da poco compiuto 70 anni.
Scrittore e critico musicale, viveva un momento di particolare felicità creativa che negli ultimi anni gli ha consentito di raggiungere risultati indiscutibili. Tra questi, Il canto degli animali – I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia, da cui è tratta la breve citazione, e La dotta lira – Ovidio e la musica, un viaggio attraverso i secoli per ritrovare e raccontare le infinite opere tratte dai versi del poeta latino. Ci aveva abituato a una cadenza regolare: un libro ogni due anni, sempre facendo confluire le due sue principali competenze, la conoscenza della musica e della cultura classiche, assieme all’amore per l’immensa civiltà napoletana, quella musicale, quella teatrale e, come ripeteva spesso, quella «dei film di Totò».
L’esordio era stato folgorante: I diamanti della corona. Grammatica del Rossini napoletano. Aveva 24 anni ed eravamo all’inizio di quella che oggi chiamiamo la Rossini-renaissance. Nel 1982 cura l’edizione italiana di un volume – La musica barocca, di Manfred Bukofzer – che a lungo è rimasto un testo di riferimento per chi ama quel periodo di storia della musica e del pensiero, allora poco frequentato. Aveva già iniziato l’attività di critico: cinque anni a Il Giornale di Montanelli, poi nel 1980 l’assunzione al Corriere della Sera. È stato il critico al quale, negli ultimi decenni, un quotidiano italiano ha riservato lo spazio maggiore. Isotta sapeva bene, astuto e beffardo com’era, che i suoi lettori si dividevano tra ammiratori e detrattori. Lo sapevano anche i direttori, ma sono stati così intelligenti da capire che una firma è una firma e va lasciata scrivere. Nella sua prosa ricca di subordinate, generosa di citazioni latine, specialistica quando era necessario lo fosse, non mancavano le prese di posizione nette. Quando prevaleva l’emozione, non le resisteva: poteva piangere a lungo per un madrigale o un responsorio di Carlo Gesualdo
eseguito bene. E poteva essere perfido: lo fu con Luigi Nono, criticando radicalmente le sue opere. Ma la reazione dei suoi avversari fu talmente incivile che Isotta uscì trionfalmente da quella polemica. Lunga è stata la frequentazione, e forse l’amicizia, con Riccardo Muti, ma i rapporti si guastarono quando Isotta criticò quello che riteneva il familismo di alcune scelte artistiche del Festival di Ravenna. Nel 2013 stroncò un concerto della Filarmonica della Scala diretto da Daniel Harding, un direttore lanciato da Claudio Abbado, vero obiettivo polemico dell’articolo. Il sovrintendente di allora Stéphane Lissner, oggi attivo a Napoli, reagì dichiarando il critico «persona non gradita». Intervenne l’Ordine dei Giornalisti: «Che un teatro pretenda di scegliersi il critico che recensisce la sua programmazione è un’idea che neanche nell’Uganda di Idi Amin aveva asilo». A Milano non è facile, per i critici, dissentire dalla Scala, ma Ferruccio de Bortoli, allora alla guida del Corriere, non esitò un istante, rivelando che già nel 2011 Lissner aveva chiesto «con arroganza» la sua testa: «Non la ebbe e non l’avrà nemmeno questa volta».
Lasciato il Corriere nel 2015, Isotta ritornò a dedicarsi a «libri che gli diano l’illusione di scrivere qualcosa di meno effimero di articoli giornalistici». Lo ha fatto, e bene, ma la passione per il giornalismo era per lui irresistibile e aveva ripreso a scrivere, con minore frequenza, per Libero e il Fatto Quotidiano. Per trovare ispirazione e conforto nella storia, rendeva spesso visita alla tomba dell’amato Alessandro Scarlatti, nella terza cappella a sinistra della chiesa napoletana di Santa Maria in Montesanto.