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 2021  febbraio 12 Venerdì calendario

QQAN70 Le recensioni di Diderot

QQAN70

Una vecchia felpa, tuta, camiciona di flanella. Tra le ferite affettive che ci portiamo dentro ce n’è spesso una legata a vecchie felpe, tute o camicione di flanella. A un indumento consunto dall’uso fino all’indecenza che però era diventato la nostra seconda pelle casalinga, oggetto transizionale fuori tempo massimo, calda cotica 40 per cento cotone e il resto sintetico con cui ci difendemmo dai più ottusi e disperanti pomeriggi domenicali d’inverno. Uno straccetto da niente al quale dovevamo tanto, ma che di colpo sparì dall’attaccapanni o dall’armadio, perché, senza preavviso, una madre, una moglie o una compagna avevano deciso che la misura del decoro era colma e il cencio andava destinato al cassonetto.
Nel caso di Denis Diderot (1713-1784), l’abito in questione fu una veste da camera di colore blu: quella che il philosophe indossa nel celebre ritratto di Louis-Michel Van Loo conservato al Louvre. Nel dipinto, Diderot siede alla scrivania e ha l’aria felice nella vestaglia come in una comoda tenuta da lavoro. Ma un giorno, credendo di far cosa gradita al suo protetto, la mecenate Madame Geoffrin eliminò la vecchia robe de chambre rimpiazzandola con una nuova, di fiammante seta scarlatta. Straziato, Denis dedicherà alla vestaglia perduta una breve elegia in prosa intitolata Rimpianti sopra la mia vecchia veste da camera, poche paginette che cominciano così: “Perché non averla conservata? Era fatta per me e io per lei. Aderiva alle pieghe del mio corpo senza infastidirlo. Ero bello e pittoresco. L’altra, inamidata e rigida, mi rende un manichino... Ero il signore assoluto della mia vestaglia; sono diventato lo schiavo della nuova”.
La liquidazione dell’adorata zimarra, dice Diderot, ha annientato la serenità domestica che governava il suo appartamento, infettandola con l’abominevole lusso dell’invadente veste scarlatta. Con un po’ di civetteria pauperistica, il filosofo ci descrive casa sua – una mansarda parigina affacciata sull’ormai scomparsa Rue de Taranne – come un protettivo ammasso di cianfrusaglie, un nido da bohémien: una sedia impagliata; un tavolo di legno; un tappeto sdrucito; una mensola imbarcata sotto libri di Omero, Orazio, Virgilio; alcune stampe fissate al muro senza cornice, più “tre o quattro gessi che, assieme alla mia vecchia vestaglia, formavano la più armoniosa indigenza”. Finché la Geoffrin non decise di riarredare tutto secondo le nuove convenienze del gusto, sostituendo il tavolaccio con uno squisito scrittoio, la seggiola con una poltrona di cuoio, aggiungendo una pendola dorata, un grande specchio sopra il camino. E così “l’edificante stambugio del filosofo si è trasformato nello scandaloso ufficio del pubblicàno” si lamenta Denis come un novello Diogene.
In effetti quella di Diderot fu a lungo la “vita agra” di un intellettuale proletarizzato, di un infaticabile poligrafo a cottimo, di un free lance della filosofia che si guadagnò la pagnotta con traduzioni, ripetizioni a domicilio, scritti sovversivi solo in minima parte pubblicati e per lo più diffusi sous le manteau, ossia clandestinamente. Tuttavia, malgrado la faticaccia, il Diderot che singhiozza sulla vecchia robe de chambre è già uno scrittore riconosciuto negli ambienti giusti, uno che piace alla gente che piace e può abbellirsi l’umile dimora con riproduzioni di Poussin, sculture di Falconet o una tela di Joseph Vernet, La Tempesta, che gli è stata regalata dall’autore. Secondo qualche esegeta, le riflessioni su quel quadro, contenute nel “Compianto” per la vestaglia, costituirebbero una specie di costola dei Salons, cioè le pirotecniche recensioni di Diderot sull’arte a lui contemporanea che escono a marzo da Bompiani per la prima volta tradotte integralmente in italiano.
Inaugurati sotto Luigi XIV, i Saloni erano le “Biennali” dell’epoca: maxi-esposizioni, pompose vetrine della grandeur monarchica. Su incarico di Friedrich Melchior von Grimm – suo amico e cinico sfruttatore – Diderot visiterà nove di quelle mostre tra il 1759 e il 1781, riferendone sulle pagine della Correspondance littéraire, rivistina manoscritta e a “tiratura” limitatissima – una quindicina di copie – che l’abile Grimm spediva agli abbonati nelle più illuminate corti d’Europa.
Quando esordisce come “reporter culturale”, Diderot non è un esperto in arti visive, ma nemmeno uno sprovveduto. Tra le voci che ha redatto per l’Encyclopédie (alla fine dell’impresa ne avrà scritte di suo pugno cinquemila su un totale di circa sessantamila) c’è anche Bello. Però un conto è definire un concetto e un altro descrivere un dipinto o una statua a gente lontana che forse non li vedrà mai, né direttamente né riprodotti. Allora che si fa? Nel passaggio dall’astrazione alla concretezza guizza il genio di Diderot, il quale ritiene che per restituire al lettore l’emozione di un’opera d’arte lo stratagemma più efficace sarà “tradurla” in un altro linguaggio, quello della letteratura, della poesia, intesa etimologicamente come poiesis: un “creare” e insieme un “fare”.
Forse perché figlio di un maestro coltellinaio della Marna, Diderot è sempre stato affascinato dal “fare”, da tecniche e strumenti dell’agricoltura, dell’artigianato, dell’industria incipiente. Le splendide tavole che corredano l’Enciclopedia ne sono testimonianza. Ma, da pensatore passionale qual è, Diderot sa anche che la bellezza non può essere ridotta a semplice exploit tecnico e che racchiude sempre qualcosa di inafferrabile, un je ne sais quoi dentro cui il filosofo decide di avventurarsi come in terre favolose e semisconosciute.
Perciò, taccuino alla mano, Denis visita e rivisita le esposizioni, magari in compagnia di artisti che ammira – Chardin, Falconet, Greuze, Vernet – prendendo nota di quanto gli viene spiegato, ma appuntando pure i commenti origliati tra il pubblico, che rumoreggia e sgomita nel Salon Carré del Louvre, dove le tele ricoprono i muri fino al soffitto.
Rientrato nella mansarda, e non disponendo di riproduzioni, Denis recensisce le opere andando a memoria in un impasto di ragione e sentimento. Esalta e stronca, si estasia e s’indigna, fa retromarcia: riabilita quel che aveva fustigato o affossa quanto aveva incensato. Presentandosi al lettore come un uomo che nell’arco di un’unica giornata può assumere “cento fisionomie diverse” ("sereno, triste, sognatore, tenero, violento, appassionato, entusiasta"), Diderot coglie nel racconto dell’arte la più ghiotta tra le occasioni per mettersi in scena, per esibire la sua personalità proteiforme.
Come sottolinea la curatrice Maddalena Mazzocut-Mis nell’introduzione, i Salons diventano così un complesso dispositivo “drammaturgico”. Un  multistrato di erudizione, conoscenze, umori, giudizi dichiaratamente arbitrari, fantasticherie, illusionismi. Primo fra tutti quello della magistrale Promenade (1767), resoconto di una passeggiata campestre della quale scopriremo che è in realtà un’escursione immaginaria tra i paesaggi dipinti da Vernet.
Sedotto, incuriosito da tutto, Diderot non inventa la critica d’arte, ma è il primo a renderla un’arte. È una mente in perenne allerta, agguato, movimento: solo divagando si concentra, solo mirando di sguincio colpisce il suo bersaglio, solo deviando dai sentieri dei sistemi, dei metodi, dei saperi stabiliti trova la strada della propria originalità, di una scrittura dalla leggerezza mai frivola. Ciò non significa che il philosophe anneghi nelle sabbie mobili dell’eclettismo. In materia di gusto non è un relativista: valuta, scevera, distingue, sentenzia. È un ateo, un materialista integrale, un edonista, ma detesta la pittura libertina dei Boucher, dei Baudouin, dei Fragonard ("Mi sembra di aver visto abbastanza tette e culi"), la licenziosità camuffata da mitologia neopagana, perché vi scorge gli eccessi di una civiltà sofisticatissima che ossessionata dal “piacere” ne strappa tutti i veli: distrugge il desiderio banalizzandone il mistero in cliché, maniera, raffinata “pornografia”.
Per Diderot l’arte è una finzione che non deve barare: “Dove mai si sono visti pastori vestiti con tanto lusso ed eleganza?” ghigna davanti a una scena bucolica. Non gli piace neanche il dipinto di Van Loo che lo ritrae nella vestaglia blu: troppo idealizzato, lezioso, perfettino. Ritoccato al Photoshop – diremmo oggi. Secondo lui, si può parlare di “bello” soltanto quando un’opera raggiunge la verità di quel rigoroso caos che è la Natura, dimensione dove tutto – materia, coscienza, creazioni umane – è interconnesso e in eterna metamorfosi. “L’estetica delle rovine”, i ruderi inghiottiti dalla vegetazione, gli servono da conferma di come, sottomessa alla furia distruttrice del tempo, perfino l’arte venga riassorbita nel ciclo vitale, tornando a farsi terra.
Denis Diderot è affetto da “biomania”, è un entusiasta del lussureggiare della vita. Da ragazzino, con tanto di tonsura, era stato avviato al seminario, ma avvistando presto nella lugubre religione della sua epoca – dominata dai gesuiti o dai loro nemici giansenisti – l’esatto contrario di sé: una poderosa flotta che rema contro la vita. Esuberante, istrionico, generoso, sentimentale senza sdilinquimenti, attratto dall’eros senza dongiovannismi compulsivi, combatté dogmi e pregiudizi, ma nel privato peccò di credulità fidandosi troppo del prossimo.
In uno dei suoi famosi “medaglioni”, Sainte-Beuve scrisse che Denis aveva sbagliato a scegliersi qualsiasi compagnia: donne, discepoli, amici (da Grimm a Rousseau) – tutti finirono per voltargli le spalle. Compresa l’imperatrice Caterina di Russia che pure gli fece da sponsor assicurandogli una vecchiaia confortevole. Ma rivelandosi poi, se non proprio autoritaria, assai meno illuminata di quanto il philosophe avesse vagheggiato: lo racconta il francesista statunitense Robert Zaretsky nell’ottimo Caterina e Diderot, appena pubblicato da Hoepli.
Nell’estetica diderotiana non mancano comunque pagine che rilette adesso risultano avariate, tipo quelle in cui all’arte è assegnato il compito di creare una nuova religione civile sulle macerie morali del cigolante Ancien Régime e dei suoi “depravati” costumi. Il pedagogismo pompier, l’enfatica idea di “Virtù” – che pochi anni dopo, tra i puritani ayatollah della Rivoluzione, avrebbe causato parecchi morti e feriti – sono anche le tare dei “drammi borghesi” architettati da Diderot per rinnovare il teatro. Teatro a cui aveva peraltro dedicato saggi prodigiosi quali il Paradosso sull’attore.
E però, a quasi due secoli e mezzo dalla morte, Denis Diderot resta il più simpatico tra i filosofi moderni. Quando durante gli studi universitari ci fecero leggere il satirico Nipote di Rameau, l’anti-romanzo Jacques il fatalista o quel  sensazionale dialogo “proto-surrealista” intitolato Il sogno di D’Alembert, fu come una liberazione dai rigori cartesiani, kantiani, hegeliani... Il primo tuffo in mare dopo l’inverno.