Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 12 Venerdì calendario

Intervista a Gianni Coscia. Parla di Umberto Eco

L’ultimo disco di Gianni Coscia s’intitola La misteriosa musica della Regina Loana ed è ispirato al romanzo di Umberto Eco, che con Coscia è stato amico tutta la vita, fin dai banchi del liceo ad Alessandria. Chi segue il jazz conosce la dolcezza della fisarmonica di Coscia e sa che le note di copertina dei dischi in cui suona con Gianluigi Trovesi sono firmate proprio da Eco. Ad unirli i ricordi e la passione per la musica. Coscia, oggi novantenne, ci regala un’Eco intimo: amico, barzellettiere, vignettista e autore di divertenti spettacolini di cabaret. «Mi manca ogni giorno di più, senza di lui è venuto meno un appiglio. Il fatto che esistesse mi bastava ».Dove vi eravate incontrati la prima volta?«Ad Alessandria, nell’immediato dopoguerra. Mi aveva ascoltato suonare la fisarmonica in un teatrino dei frati francescani che frequentavamo entrambi. Allora era iscritto al conservatorio, studiava il violoncello. Durante la guerra, quando con la famiglia era sfollato a Nizza Monferrato, aveva imparato invece a suonare la tromba nella banda del paese».È la musica quindi ad avervi avvicinato?«Mio cugino Aristide Coscia era un giocatore della Roma appassionato di jazz. Per via della guerra era tornato a casa portando con sé una pila di dischi dai titoli stranissimi, camuffati perché il regime mal sopportava quella musica: Saint Louis Blues era diventato Tristezze di San Luigi, Louis Armostrong era Luigi Fortebraccio, Benny Goodman era Beniamino Buonomo. Che un ragazzino tredicenne sapesse tanto di jazz non era usuale a quei tempi.Fui io a instillargli quella passione.Lui mi parlava di musica classica e io lo iniziavo al jazz».Frequentavate la stessa classe?«La sezione A del liceo Plana. Quando è morto ho proposto di intitolargli la scuola ma un gruppo di professori si è opposto e non se ne è fatto nulla.Non avrebbe mai voluto una strada o una piazza a suo nome, ma la scuola forse gli sarebbe piaciuta. Sosteneva che se vuoi dimenticare una persona devi intitolargli una via».Come trascorrevate il tempo insieme?«Ci divertivamo a scrivere spettacoli di cabaret che poi portavamo nell’aula magna della scuola o nel teatrino dei frati. Erano sul modello delle riviste di Garinei e Giovannini.Lui scriveva i copioni e io la parte musicale. Mettemmo in scena la storia della filosofia in versi, la storia della rivoluzione russa e il Vangelo.Erano testi spassosissimi. Era un barzellettiere formidabile. Una volta mi ha telefonato da New York per raccontarmi una barzelletta».Come andava a scuola?«Non era un secchione. Era inarrivabile nelle materie letterarie, nelle altre stava nella media. Gli piaceva prendere appunti disegnando. Un giorno la professoressa di scienze lo ha rimproverato perché si distraeva. Lui a quel punto le ha ripetuto tutta la lezione attraverso i disegnini che aveva fatto. Era geniale. Per questo fu stranissimo quando al tema di maturità prese solo discreto. Ho letto quel tema, parlava dei fermenti politici, socia li e filosofici del XIX secolo, era da dieci e lode. Chi aveva capito la sua genialità era il professore di filosofia».E infatti dopo la scuola scelse la facoltà di Filosofia.«Un giorno la madre Rita, una casalinga dall’intelligenza vivacissima, mi disse preoccupata: “Tu sì che hai la testa sulle spalle, hai scelto Legge, invece Umberto ha la testa fra le nuvole, vuol far filosofia, morirà di fame”. Le risposi: “Le assicuro che non morirà di fame”».Nel libro della Regina Loana compare una ragazza amata a sedici anni, è un episodio vero?«Certo, noi la chiamavamo Lilli ma il vero nome non lo ricordo. Sono stato testimone di quell’innamoramento.Nel romanzo il protagonista Yambo, prova senza successo a dichiararsi.L’aspetta sotto casa e timido le chiede: “Abita qui Vanzetti?”. Lei risponde “no”, lui la ringrazia e se ne va. Umberto era impacciato con le ragazze, forse per via della sua educazione cattolica, sembrava trattenuto dalla paura di commettere un peccato. Era stato anche dirigente dell’Azione Cattolica».Ha musicato questo libro perché contiene i vostri ricordi?«Dentro ci sono anch’io, il personaggio di Gianni Laivelli è una sintesi tra il mio nome e quello di Beppe Lai e Mario Garavelli. Eravamo tre amici molto affiatati».Negli anni avete continuato a vedervi?«Gli appuntamenti fissi erano a luglio e a capodanno a Monte Cerignone, il paese marchigiano dove aveva una casa ricavata in un ex convento.Passavamo il tempo a ricordare aneddoti della scuola, scherzavamo.Ma ci piaceva anche starcene in silenzio sul divano».Il silenzio se non si ha intimità può imbarazzare.«A Milano a volte lo accompagnavo a casa dal bar. Camminavamo senza parlare. In quei momenti capivo che stava pensando intensamente a qualcosa, mi sentivo di collaborare attraverso quel silenzio».Quando l’ha visto l’ultima volta?«Abbiamo trascorso insieme il suo ultimo capodanno. Era molto malato, a un certo punto si è appartato e si è addormentato. A mezzanotte si è risvegliato, ha voluto brindare con noi. Ci siamo rivisti poi a gennaio a Milano per il compleanno di mia moglie. Lo avevamo invitato in un ristorante di pesce, ordinò una banana, dopo mi chiese scusa e se ne andò. Non l’ho più sentito».