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 2021  febbraio 12 Venerdì calendario

La parabola di Di Battista

E alle nove della sera Dibba aziona il tasto video di Facebook dalla cucina, con alle spalle le posate appese al muro, e celebra il funerale del grillismo del Vaffa. «Non posso andare contro la mia coscienza», dice con la voce incrinata. E siccome tutto in lui è emotività e biografismo, aggiunge: «È stata una bellissima storia d’amore».
Difficile inquadrarlo, perché è stato figlio di questo tempo senza più appigli. Ha personificato la confusione nella quale siamo precipitati, e perciò modernissimo. Per Trump e contro Obama. Ma anche zapatista e cooperante in Sudamerica. Per il governo con la Lega, ma con un passato giovanile di elettore di sinistra. A Cuba ha abbracciato la statua del Che anche se il padre ha il busto di Mussolini in casa. Alleato con i gilet gialli, eppur fiero del suo passato di catechista. Tutti si tiene, alla rinfusa, perché Dibba in fondo è «un blog fatto persona, un post vivente, un fate girare tutti!», come scrisse una volta l’Espresso.
Diceva frasi che oggi ci fanno un po’ ridere: «Sono pronto a morire per l’Italia, dobbiamo risvegliare le coscienze». Ma ci fu un tempo, non tanto lontano, in cui milioni di italiani si spellavano le mani per slogan come questi. E infatti Beppe Grillo stravedeva per lui. Disse più volte che lo riteneva il suo erede. Un retore di talento, che sbagliava i congiuntivi: «Lei non m’interrompi!»; ma anche questa contraddizione in fondo è contemporaneità. È stato obiettivamente il più efficace sul palchi del Vaffa, il più telegenico nei talk, anche Silvio Berlusconi, che se ne intende, a un certo punto lo corteggiò, e Di Battista pubblicò naturalmente gli sms delle avance su Facebook.
E ora che farà, il capopopolo dei grillini delusi? La verità è che gli sono sempre piaciute troppe cose per essere davvero costante nella sua ambizione, troppo Peter Pan per ambire davvero al potere. Difficile immaginarlo a capo di un partito di arrabbiati, perché vuole fare insieme politica, realizzare doc, scrivere libri, fare il reporter, dormire in tenda alle Galapagos ed essere il migliore papà del mondo.
Dibba è stato soprattutto la sua biografia. «Si vede che sono felice?» scriveva su Instagram durante il tour contro il referendum di Renzi nell’estate 2016, quando macinò migliaia di chilometri in moto, e il popolo gli rispondeva «sei il nostro guerrieroooo». Nella stagione dell’antipolitica, («i partiti sono tutti marci!»), era una furia: contro la casta, l’euro, i poteri forti, vedeva ovunque mafia e politica, e dei complotti del mondo comiziava ogni lunedi a casa di un militante di periferia, per mostrare che lui era uno che mangiava la pizza con la gente di Giardinetti, sulla Casilina.
Scrive nella sua biografia A testa in su: «Quella volta che mi licenziai e acquistai un biglietto di sola andata per Buenos Aires, per quasi due anni viaggiai in autostop per l’America Latina tra la gente qualunque come una persona qualunque, alla ricerca di spremute di umanità». Qualcuno dirà: Dibba è rimasto fedele alle sue origini di movimentista, di grillino duro e puro. Ma pure Di Maio non è cambiato, ha mantenuto sempre quell’aria da eterno assessore. Infatti Dibba dice, in diretta social, «vogliono sistemizzare il Movimento», proprio mentre Di Maio incitava quel che resta del popolo grillino a votare per il Sì.
Nessuno ha mai capito veramente perché sia rimasto fuori dalle elezioni del 2018, rinunciando a una poltrona sicura da ministro degli esteri. Negli ultimi anni ha postato quasi ogni giorno una foto di sé con i figli, Dibba in famiglia, un sfoggio che testimoniava un certo imborghesimento, una lontananza dalle durezze della battaglia politica. Da tempo Grillo aveva preso le distanze dal figlio prediletto. La scorsa estate, quando Dibba accusava i Cinquestelle di essere diventati «come l’Ncd di Alfano», Grillo aveva capito che la rabbia che li aveva portati al 32 per cento non c’era più nella società, mentre Dibba ne aveva nostalgia: «Chi canalizza la rabbia sociale in autunno?», si chiedeva. L’altra sera in assemblea Grillo aveva capito tutto: «Restiamo uniti, ma non possiamo accontentare tutti». Una profezia.
Il video della cucina sancisce però davvero la fine di una storia. A inizio legislatura l’M5S ha fatto parte di un governo che non disdegnava di uscire dall’euro («la moneta unica ci ha distrutto», diceva Dibba), e la finisce dentro un esecutivo europeista, guidato dall’ex presidente della Bce. Il populismo italiano è spirato per le troppe capriole ieri sera nel tinello di casa Di Battista.