Corriere della Sera, 11 febbraio 2021
1QQAFZ10 L’arte di raccontare l’amore
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«Ditemi la verità, vi prego, sull’amore/ Alcuni dicono che l’amore è un bambino/ e alcuni che è un uccello/ alcuni dicono che fa girare il mondo/ e altri che è solo un’assurdità». Solo un pazzo poteva pensare di rispondere alla domanda del poeta, e che da secoli, ben prima che W.H. Auden la traducesse in memorabili versi, si pongono filosofi, letterati, artisti, signore e signori.
Quel pazzo, sconsiderato, temerario è Giuseppe Di Piazza; e io lo ammiro per il coraggio e anche per il risultato, che per stare in tema potrei definire seducente. Dovete però sapere – io lo so perché lo conosco da tempo – che l’autore si è azzardato perché disponeva di tre frecce al suo arco di pseudo-cupido, capaci di rendergli l’ardua impresa un po’ più agevole.
La prima consiste nel fatto che, pur facendo il giornalista, mestiere gravato dalle sue prosaicità, Di Piazza è un romanziere. Sa cioè raccontare storie del solo genere che piacciono al pubblico dalla notte dei tempi, storie di vita e di amore e di passione e di tradimento, e l’ha fatto spesso nei suoi romanzi di successo ma anche nella sua arte fotografica, sorprendente e felice espressione di una poliedrica qualità di narratore. Un libro che dunque era inteso per essere un «saggio», diventa invece un «romanzo», genere decisamente più adatto al tema: la storia di due trentenni, Lucas e Margherita, che si incontrano, si attraggono, si prendono, si innamorano, convivono, si respingono, si lasciano, per un po’ si astengono e si riprendono e chissà che altro (la vicenda, par di capire nella postilla-lettera finale che non svelo, è ancora in itinere).
La seconda freccia all’arco dell’autore sta nella sua esperienza in materia. Si vede che di amore se ne intende. Che ci ha riflettuto quasi in ogni istante della sua vita. Che è materia incandescente del suo essere. Amore coniugale, innanzitutto, del genere più bello e profondo (a mio modesto parere). Lui stesso conclude ammettendo l’ispirazione ricevuta dall’«amore di Roberta, mia moglie», cui il libro è dedicato: «La nostra storia somiglia, fatte le debite proporzioni, a quella dei protagonisti», ma alla fine «ci ha portati a costruire quell’edificio stupefacente che è la vita insieme». Poi l’amore per la donna in sé, intesa sia come archetipo dell’altro dal maschio che poi è il mistero e il premio di ogni unione, sia come singole e concrete donne, ammirate ed evidentemente ascoltate, perché del loro modo di sentire amoroso l’autore mostra piena consapevolezza nel suo incedere narrativo (si potrebbe anzi parlare di una «scrittura femminile», nello stile e nell’approccio).
La terza freccia di Di Piazza sta nell’umiltà con cui affronta l’enorme vastità del già detto sul tema. A partire dal titolo, che presenta un trattato su «L’arte di non amare» (in libreria da oggi per HarperCollins): un modo intelligente per prendere l’argomento di lato, o alle spalle, affidandosi a Ovidio per parafrasi, e rinunciando così in partenza a ogni presunzione o affettazione di originalità. Anzi, una delle qualità migliori del libro sta proprio nel fatto che l’autore si issa deliberatamente sulle spalle dei giganti, presentandoci un’antologia del pensiero sull’amore man mano che si sviluppa la sua storia. Possiamo così con lui guardare un po’ più in là, e scrutare il destino di questo sentimento in un’epoca che nessuno di quei giganti avrebbe mai potuto nemmeno immaginare, per quante trappole tenda all’amore, e quante «chicane» dissemini sulla strada degli amanti.
L’amore al tempo dei social, l’improbabilità romantica dei luoghi dell’incontro nelle nostre città post moderne, le geometrie domestiche minimaliste sedi del «trapezio volante» del primo scambio sessuale, le «tecniche di distanza» che adottiamo già dal mattino dopo nel galateo del messaging, «non farsi vivo e non telefonare/ parlar di tutto per non parlar d’amore/ aver paura di innamorarsi troppo», perché insomma, come letto su Twitter, «se dopo il primo bacio il principe azzurro avesse detto vabbè, ma mica stiamo insieme, ci saremmo risparmiate un sacco di complicazioni crescendo», e poi «quel parassita chiamato gelosia», e infine la scoperta che «poco è quello che giova agli amanti/ di più quello che nuoce;/ mettano in conto molti dolori». Le vicende di sempre, eppure ogni volta così diverse, e ci voleva un cantore come Di Piazza per aggiornare la lista dei classici sul tema.
Ps: suggerimento di lettura, accompagnatela con la colonna sonora di Dance me to the end of love, di Leonard Cohen, per assaporare «il non detto che appartiene a ogni danza dionisiaca».