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 2021  febbraio 10 Mercoledì calendario

Biografia di Federico Caffè


Grandissimo intellettuale, interdisciplinare e poliedrico nella sua attività di ricerca e di docenza (più di 1.200 i suoi laureati; decine i suoi allievi accademici illustri e civil servants come Draghi e Visco), teorico e storico dell’economia, consulente della Banca d’Italia, pubblicista e cittadino impegnato, Federico Caffè è stato un uomo sobrio e concreto, portatore, com’egli diceva, del buon senso dell’Italia povera del Sud, dove aveva le sue origini.
La sua sterminata cultura non era un vezzo, né un’erudizione compiaciuta e solitaria; gli serviva per lo scopo principale della sua opera scientifica, che è stata di dare una dimensione storica, e perciò concreta e problematica, all’economia: tanto all’analisi teorica quanto alla pratica che egli vi vedeva indissolubilmente legata. Era quindi insoddisfatto sia delle vertiginose astrazioni di una parte della scienza economica (di parti anche contrapposte, in verità: di Sraffa e anche del neoliberismo) sia delle velleitarie impazienze rivoluzionarie di chi profetizzava un avvenire economico utopico nell’attesa inconcludente del crollo del capitalismo. Il riformismo che Caffè ha sempre perseguito e rivendicato non ha nulla di “moderato”, di opportunistico, né di unilaterale – non era un fautore di “riforme impopolari” a senso unico, insomma, come non era un rivoluzionario da salotto –; è anzi la volontà di perseguire «quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere».
Un riformismo progressista, quindi, orientato da valori umanistici – che da giovane misero in contatto lui, demolaburista politicamente vicino a Meuccio Ruini, con una rivista cattolica di sinistra come Cronache Sociali di La Pira, Fanfani, Dossetti – e dalla convinzione che compito dell’economia non è l’apologia incondizionata del mercato (né, come avveniva in epoca fascista, dello Stato) ma la lotta contro quelli che Keynes, l’economista a cui si sentì più vicino, bollava come «i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo», cioè «l’incapacità di provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi».
Quindi, nella visione di Caffè, è centrale la politica economica, che dell’economia è per dir così il lato pratico – sorretto da un’analisi accurata del passato e del presente, e pertanto capace di interpretare il “capitalismo reale”, non quello immaginato dalle teorie –; una politica economica che, con le sue parole, «consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono nell’espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica». L’obiettivo della politica economica non è quindi, per lui, la deflazione, ma la piena occupazione e l’affermazione della dignità del lavoro come via per la promozione dell’intera persona umana, nonché la realizzazione, attraverso il pubblico intervento, di una “maggiore equità”, per «portare a un più completo ed efficiente uso delle risorse di una nazione». Se si priva di questo spessore civile e umano, se rinuncia all’obiettivo dello Stato del benessere che assicura a tutti una uguaglianza di possibilità (c’è qui una buona anticipazione di Amartya Sen e di John Rawls), l’economia rischia di diventare una “scienza crudele”.
Si deve quindi a Caffè un salutare scetticismo verso le tesi neoliberiste, imperanti dalla fine degli anni Settanta a oggi, della centralità sociale e politica del mercato, della intangibilità delle logiche del profitto e del merito (che, in via del tutto presuntiva, gli sarebbe connesso), ossia verso la diseguaglianza che nasce dall’interpretazione dell’economia come un astratto sistema di equilibri, di libere scelte individuali, di concorrenza perfetta. Il suo rivendicato “eclettismo” metodologico era insomma al servizio di una lettura non neutra dell’economia; nasceva dalla consapevolezza che è necessaria una ricca panoplia strumentale sia per decifrare le diverse modalità con cui il capitalismo evolve di crisi in crisi sia per approntare tutte le mediazioni concretamente possibili e praticabili fra la ricerca privata del profitto e l’interesse pubblico per una società umana, coesa, equa.
Un “riformismo gradualistico”, quello di Caffè, che egli difendeva anche citando Gramsci; che lo rendeva insofferente delle critiche all’assistenzialismo (dietro alle quali leggeva l’avversione all’intervento equilibratore dello Stato; ma fu severo con il sistema delle Partecipazioni Statali); che lo portava vicino alla sinistra politica e sindacale (collaborò per anni al Manifesto e interloquì con la Cgil); ma che lo indusse anche a criticare la trascuratezza con cui ancora negli anni Settanta il Pci trattava la teoria economica e, per un’eccessiva ricerca del consenso, rinviava a un imprecisato futuro le necessarie riforme volte a «erodere le posizioni monopolistiche e parassitarie». La solitudine del riformista – il titolo di uno dei suoi libri – è quindi l’esito obbligato di queste posizioni; Caffè vedeva bene l’avanzata del neoliberismo, da una parte, con la sicurezza (a volte la sicumera) dei suoi esponenti monetaristi di primo piano, e con le sue promesse a buon mercato; e dall’altra la incapacità della sinistra di comprendere la portata epocale degli avvenimenti. E vedeva bene, con acume misto a malinconia, le occasioni perdute per la politica e per la società, i costi sociali, le disuguaglianze, le inefficienze, i fallimenti del cosiddetto “libero mercato”, l’operare oscuro degli anonimi “incappucciati” (parole sue) che muovono, all’insaputa dei popoli, la finanza internazionale.
Lo studioso che ha perseguito la dura fatica dell’analisi storica per affrontare la realtà complessa dell’attualità si è trovato nella posizione dell’inattuale, se non del profeta inascoltato. E proprio lo scoramento è forse all’origine della sua misteriosa scomparsa nel 1987, che ha suscitato tanta curiosità. C’è da augurarsi che altrettanta curiosità rinasca oggi intorno alla sua figura di studioso generoso e tanto intellettualmente onesto quanto colto e appassionato (ma va detto che la sua memoria è molto presente nel mondo accademico-economico), e che la sua convinzione, ripresa da Keynes, che alla lunga le idee hanno la meglio sul peso bruto degli interessi, sia ispiratrice di una nuova fase della nostra esistenza collettiva.