Corriere della Sera, 9 febbraio 2021
«Il mio amico Ottavio Missoni»
E dàghela co sta Antigone, mi diceva Ottavio Missoni quando sul Corriere usciva un mio articolo che parlava, non per la prima né per la seconda volta, della «più radiosa figura umana mai apparsa sulla Terra», come la chiamava Hegel.
I l primo contatto – parola che in questo caso va intesa nel senso più letterale – con lui l’ho avuto a Trieste, dietro il sipario del Politeama Rossetti. L’Associazione triestina dei commercianti al dettaglio aveva assegnato due premi – due Rose d’Argento – a due persone la cui identità sarebbe stata rivelata solo al momento della premiazione. Mentre sul palcoscenico si accingono a dire il nome dei premiati, si sente la voce possente di Ottavio: «Ecco uno», mentre con uno spintone mi scaraventa oltre il sipario e io, barcollando e riuscendo a non cadere, cerco di dire: «È stato lui, Missoni!». Era la prima volta che – per così dire – ci parlavamo, perché nel buio dove eravamo stati nascosti non avevamo avuto modo neanche di presentarci.
Il vero premio, quella sera, è stato per me l’inizio di un’amicizia cresciuta negli anni, che mi ha fatto sentire come potrebbe e dovrebbe essere la vita, se vissuta con gagliardo e appassionato disincanto, con quella generosa e spavalda autoironia che, prendendola apparentemente sottogamba, le dà senso.
Da quella sera ci siamo visti più volte, a Trieste, a Milano, a Miholašcica, incantevole baia sull’isola di Cherso dove ho passato tante estati e dove spesso lui, Rosita e i loro figli e amici gettavano l’ancora della loro «Issa», la panciuta «barcotta da trasporto» che alzava le vele più bizzarre. Rosita, lui e gli altri si tuffavano e sparivano sul fondo, cercando molluschi di cui, riaffiorando, mangiavano la polpa o, se la preda era più grossa, li lanciavano sul ponte per preparare il pranzo. I suoi amici erano degni di lui, come Albano, pescatore che viveva più in acqua che in terra ed era divenuto quasi un pesce, un Glauco del mito greco.
Il leggendario campione e il grande artista viveva il rapporto con gli altri – con la sua famiglia, i suoi amici e potenzialmente il mondo intero – come una partita a carte, un mare da affrontare in tempesta o un bordeggiare lieve, con un’inarrivabile capacità di non farsi fregare e un generoso istinto di aiutare chi è in difficoltà.
La sua patria erano la costa e le isole adriatiche, la Dalmazia, quel mondo veneto, italiano, slavo, illirico, ungherese, un’unità frastagliata intessuta di mescolanze e di scontri, in cui gli italiani portavano spesso cognomi slavi e un padre del Risorgimento italiano come Tommaseo poteva definirsi «Italo-slavo». Un arcipelago che abbraccia individualità affini e diverse – come la gloriosa e plurale Ragusa dove Missoni era nato. Un mondo un po’ anche mio – mio nonno materno era nato a Sebenico.
Un mondo di incontri e di scontri anche feroci, violenze inferte e subite, rancori, persecutori e vittime da una parte e dall’altra. Missoni ha sentito fortemente il dolore per la violenta perdita, alla fine della Seconda guerra mondiale, dell’Istria, di Zara e di altre terre e città, per l’esodo che a suo tempo ha coinvolto anche la mia famiglia. Sino alla fine è stato presente nelle associazioni degli esuli istriani e dalmati, ma è sbagliato considerarlo, come alcuni hanno fatto, un nazionalista italiano; era e sapeva di essere intessuto di quella pluralità.
Ogni tanto, parecchi anni fa, andavamo a cena, a Milano, anche con Enzo Bettiza e Dario Fertilio. Tre dalmati, tre esuli – Bettiza ha scritto pure Esilio – che qualcuno avrebbe potuto sospettare di sentimenti antislavi. Ma al nostro tavolo loro tre si mettevano spesso a parlare in croato.
L’unico, a quel tavolo, che non sapesse il croato e quindi non capiva niente ero io.
Era un grande narratore orale, epico e insieme anarchico; come quando parlava di Guillaume Misson, corsaro bretone che lasciava immaginare suo antenato e che aveva percorso i mari, intrecciando abbordaggi e saccheggi con Libertalia, immaginaria repubblica pirata. Una volta una giovanissima nipote di Ottavio, tornando a casa dopo aver visto, attraversando la città, le bandiere di un qualche corteo politico, gli aveva chiesto di metterne una anche alle loro finestre. Sì, aveva risposto il nonno, ma il Jolly Rogers – la bandiera nera dei pirati col teschio.
Indimenticabile il suo racconto della battaglia di El Alamein, dove l’armata inglese sconfisse le forze tedesche e italiane. Missoni avanzava strisciando sotto l’uragano dei proiettili e, in un momento particolarmente furibondo si era nascosto in una buca dove si era addormentato. Quando si era svegliato, la battaglia era già perduta. Da un carro armato con un mitragliatore gli si ingiunge di alzare le mani. Cossa te parli inglese, mona, ma dopo pochi secondi, capìta la situazione, le alza e si avvia verso la lunga prigionia.
Faceva bene stare vicino a lui. Una volta, molti anni fa, lui era di passaggio a Trieste e siamo andati a cena. Lui si accorse subito che quella sera ero veramente giù. E alora? Che c…, xe cussì, no? Sì, è così.