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 2021  febbraio 09 Martedì calendario

Il popolo vuole l’élite

Dopo anni passati a cercare un «popolo» mitico e indistinto su cui fondare effimere fortune elettorali, ora è il popolo che cerca una élite per farsi guidare fuori dal guaio in cui siamo. Si spiega così l’ampio favore con cui gli italiani hanno accolto l’incarico a Draghi e il suo tentativo di formare un governo. Il sostegno quasi unanime delle forze politiche ne è una conseguenza.
Ci sarà del resto una ragione se in tutta la storia umana ogni società, anche la più semplice, ha conosciuto una qualche forma di stratificazione sociale. C’è sempre bisogno di un ceto di persone, dotate di speciali capacità, in grado di svolgere funzioni vitali: dai sacerdoti/agronomi delle civiltà mesopotamiche, agli inventori di vaccini in quelle contemporanee. Ma le competenze, addestrate in lunghi e faticosi periodi di apprendimento, e le gerarchie di valori che inevitabilmente creano tra i membri della società, non bastano a formare una élite. Perché questa trasformazione avvenga c’è bisogno di qualcosa di più del sapere: serve la capacità di interpretare l’interesse generale, di mettere le proprie capacità al servizio della nazione, di unirla intorno a una meta.
In fin dei conti la democrazia politica, con il suo sistema della rappresentanza, non è altro che la ricerca di un equilibrio tra il popolo e le élite. Quando questo connubio riesce, hai Franklin Delano Roosevelt, rampollo di una delle famiglie più antiche d’America, eppure ricordato per aver vinto la guerra alla povertà della Grande Depressione. Quando le élite si comportano come il Principe di Salina, che rifiuta la carica di senatore del nuovo Regno d’Italia, convinto che tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è, allora è un’altra storia.
Eppure anche in questa storia, la storia d’Italia, ci sono stati periodi e fasi in cui le élite hanno svolto un ruolo decisivo. Il banchiere antifascista Raffaele Mattioli, l’imprenditore partigiano Enrico Mattei, l’industriale cosmopolita Gianni Agnelli, letterati e poeti come Italo Calvino o Pier Paolo Pasolini, hanno rappresentato per la nazione una guida che andava al di là e al di sopra della politica, e spesso anche oltre il proprio interesse di ceto. L’Italia del dopoguerra ha dimostrato di avere eccome una élite, e la cosa non è stata ininfluente nello straordinario successo economico di quegli anni, nella travolgente modernizzazione di un Paese uscito dalla guerra non solo sconfitto, ma provinciale, arretrato e bigotto.
È vero però che negli ultimi decenni si è affermata un’altra idea di élite: più simile alla casta brahminica dell’India, al ceto chiuso delle società di antico regime, concentrata sull’obiettivo di autoriprodursi cibandosi di potere. E non parlo solo del personale politico prodotto da partiti in precipitosa caduta di rappresentanza e prestigio. Ma anche della classe dirigente che stava fuori dal Parlamento, nell’apparato pubblico, nelle imprese, nelle università, nei corpi intermedi, e che si è mangiata a bocconi lo Stato, appesantendolo con un debito pubblico mostruoso, privatizzando i profitti e pubblicizzando perdite e sacrifici. Questo ha infuriato l’opinione pubblica; e le ha anche fornito un grande alibi per non vedere le colpe comuni, di tutti, giustificandole con il cinismo di pochi. Si spiega così perché ogni volta che per rimetterci in sesto abbiamo dovuto far ricorso alle élite, come con il governo Ciampi e il governo Monti, ci sia poi stato un colpo di frusta; e siano nati proprio allora movimenti politici, pur diversissimi tra loro come il berlusconismo nel 1994 e il grillismo nel 2013, entrambi basati su quella che Ortega y Gasset descrisse come «la ribellione delle masse».
Sappiamo che Mario Draghi proviene da una tradizione di servizio all’interesse nazionale tra le più impeccabili e severe, quella della Banca d’Italia di Stringher, di Einaudi, di Ciampi. Una fucina di classe dirigente nel senso migliore, le cui qualità Draghi ha esportato in Europa e nel mondo, ricavandone ammirazione e rispetto. Però, nonostante questi quarti di nobiltà, neanche lui potrà sfuggire ai rischi che la situazione comporta.
Il primo è il seguente: c’è ancora oggi, nel declino italiano, abbastanza élite di qualità per guidare uno sforzo di rinascita nazionale? Nel governo Ciampi del 1993, tanto per dire, c’erano un giurista come Gino Giugni, un intellettuale come Alberto Ronchey, un politico come Beniamino Andreatta. Il secondo interrogativo è più indiscreto: sarà questa nuova classe dirigente, chiamata alla prova della pandemia dal fallimento della lotta dei galli politici, capace di «sporcarsi» le mani? Di rischiare cioè anche la critica e il dissenso che inevitabilmente arriveranno di fronte alle scelte difficili? Perché tra le tante qualità dell’élite non sono il distacco aristocratico e la raffinatezza dei modi quelle più richieste dai tempi che viviamo. Ogni governo è politico. E la politica democratica è sempre lotta e combattimento, anche senza ricorrere al brocardo di Rino Formica su «sangue e merda». Lo è perfino quando ci si trova alle spalle il grande consenso popolare che oggi accoglie la speranza Draghi.