la Repubblica, 9 febbraio 2021
Cosa accomuna i governi Ciampi, Monti e Draghi
Negli ultimi trent’anni è la terza volta che il sistema italiano ricorre a personalità esterne ai partiti per tagliare di netto dei nodi divenuti troppo ingarbugliati.
In tutti e tre i casi la scelta è ricaduta su tecnocrati di altissimo profilo, con una chiara impronta di civil servant e con alle spalle autorevolissimi percorsi professionali nel mondo dell’economia, delle banche e dell’alta finanza, inevitabilmente caratterizzati da reti di relazione di tipo internazionale e cosmopolita.
Così è avvenuto con l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, con l’ex rettore dell’università Bocconi e Commissario europeo Mario Monti nel 2011 e ora con l’ex governatore della Banca d’Italia e della Banca centrale Europea Mario Draghi.
Forse non è inutile riflettere sugli elementi in comune e sulle differenze che hanno innescato queste esperienze commissariali.
In comune hanno il fatto che tutti e tre gli esecutivi sono nati sotto l’egida e l’impulso del capo dello Stato (Scalfaro/Ciampi; Napolitano/Monti; Mattarella/Draghi) che ha scelto questo tipo di personalità giudicandole l’estrema risorsa per tutelare l’interesse nazionale di cui sono i supremi garanti.
Inoltre, le tre storie sono apparentate da un elemento ancora più importante, ovvero sono state attivate in un momento di ridefinizione del nesso nazionale-internazionale, in particolare del vincolo esterno con l’Europa fuori dal quale non c’è salvezza né speranza per il nostro Paese. Nel 1993 vi era la necessità di preparare l’Italia all’ingresso nell’euro nel rispetto dei vincoli di Maastricht fissati l’anno prima, acuiti dal timore che altrimenti avrebbero potuto prevalere i progetti secessionisti del nord più produttivo del Paese. Nel 2011, sotto i colpi galoppanti dello spread, l’Italia arrivò a un passo dal default se non si fossero realizzati alcuni provvedimenti richiesti in una lettera dei vertici della Bce al governo Berlusconi.
Come forse si ricorderà, il Corriere della sera scelse di accompagnare la pubblicazione di quella missiva con un editoriale di Monti dal significativo titolo “Il podestà forestiero”, in cui si rivendicava che in quella fase «le decisioni principali sono state prese da un “governo tecnico sopranazionale” e, si potrebbe aggiungere, “mercatista”, con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York». Forti del senno del poi quell’intervento poté sembrare un’autocandidatura, ma in realtà era un ultimo invito rivolto al governo italiano di intraprendere la strada dell’austerità a trazione tedesca in un clima di larghe intese.
Adesso la partita europea riguarda la gestione degli oltre duecento miliardi del Recovery. In tutta evidenza i prestatori di denaro a debito di oggi vogliono avere le migliori garanzie possibili che quelle somme non vadano sprecate e possano formare quello che proprio Draghi ha chiamato il “debito buono”, funzionale cioè ad alimentare lo sviluppo: una clausola di auto-tutela ben comprensibile se consideriamo la tara ormai pluridecennale del debito pubblico italiano.
Sul piano politico l’apertura di queste parentesi tecnocratiche ha sempre svolto una funzione di tregua servita ad accompagnare una scomposizione e una ricomposizione del quadro partitico.
L’avvento di Ciampi si fondava sull’esaurimento della cosiddetta «Repubblica dei partiti», di cui sarebbe stato storicamente l’ultimo esecutivo. Quel sistema proporzionale era impostato su culture politiche identitarie forgiate dalla guerra fredda che stavano venendo meno sotto i colpi contingenti di Tangentopoli, ma soprattutto a causa del mutato contesto internazionale che le aveva giustificate e rafforzate oltre i loro stessi meriti. Scalfaro e Ciampi scelsero un esecutivo misto, formato da tecnici d’area, da tecnici indipendenti e da alcune figure politiche non di primissimo piano.
Il governo Monti, invece, si instaurava sulla crisi manifesta del sistema di potere berlusconiano, sul piano politico incrinato dalla rottura con l’alleato di sempre Gianfranco Fini e dal fatto che scontava un serio problema di reputazione internazionale a causa dell’esplosione del “caso Ruby”, la presunta nipote di Mubarak. La scelta di Napolitano e di Monti fu diversa da quella di Ciampi e condizionata dal fatto che bisognava effettuare draconiani tagli di spesa pubblica e una dura riforma del mercato del lavoro: questa volta i partiti preferirono fare un passo indietro, favorendo un governo dei professori con l’idea di potere più agevolmente prendere le distanze da quell’esperienza come nei fatti fece soprattutto Berlusconi.
Vedremo quale sarà la formula adottata da Draghi e da Mattarella anche se la fase di oggi è caratterizzata da differenze sostanziali rispetto alle precedenti. L’ascesa di Draghi avviene in un momento in cui, a causa dell’epidemia, non bisogna tagliare, ma decidere come spendere miliardi di euro in termini di tempistica e di indirizzo strategico. Come è noto, l’Italia ha da sempre un cronico problema non tanto di mancanza di fondi, ma di capacità di utilizzarli con efficacia. Non si va lontani dal vero nel supporre che in quegli ambienti internazionali, così precisamente definiti da Monti dieci anni fa, potesse serpeggiare il timore che i soldi del Recovery rischiassero di avere un uso a pioggia, di tipo assistenzialistico, corporativo e localistico, con un debito europeo utilizzato non per alimentare lo sviluppo ma per ungere il consenso elettorale.
Tanto più che la popolarità di Giuseppe Conte, incrementata dalla gestione securitaria e dirigista dell’epidemia, si sarebbe potuta ulteriormente rafforzare se fosse stato direttamente lui a gestire i fondi del Recovery non più come premier dell’emergenza ma anche della ricostruzione e con un piano vaccinale ben avviato. Certo, in una situazione politica difficile e con i suoi limiti, ma non sull’orlo del collasso come quella del 1993 e del 2011.
L’esperienza passata rivela che questi periodi di decantazione hanno sempre rappresentato delle occasioni per accompagnare una ridefinizione del quadro politico. Il centrodestra approfittò del governo Ciampi per organizzare la discesa in campo di Berlusconi e lo sdoganamento della destra del Movimento sociale; il centrosinistra per iniziare a incubare il progetto dell’Ulivo.
Nel corso del governo Monti si alimentò a dismisura la fiamma del Movimento 5 stelle protagonista del decennio successivo e si crearono le premesse per l’affermazione di Renzi e del renzismo all’interno del Partito democratico.
L’esperienza passata, dunque, suggerisce che se i partiti saranno in grado di usare questa fase di convergenza per ristrutturarsi non solo sul piano organizzativo ma su quello identitario, il tempo di Draghi che sta per iniziare potrà trasformarsi per loro stessi in una opportunità che sarebbe sbagliato non cogliere.