La Stampa, 8 febbraio 2021
1QQAN40 L’Italia raccontata attraverso la protezione civile
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Qualche anno fa, scarpinando in Liguria su una spianata di cemento a picco sul mare sbriciolata da un’alluvione, tra soccorritori e autorità varie un tizio di una certa età attirò la nostra attenzione. Attorniato da un drappello di giovani, saltabeccava tra muretti a secco e detriti marcescenti con la confidenza di un bambino tra i Lego. Ci unimmo abusivi come nei musei quando ci si mischia a un gruppo di turisti al seguito di una guida eloquente. Scoprimmo al momento dei saluti che il Cicerone era uno dei padri della Protezione civile italiana: Franco Siccardi, docente di idraulica e a lungo membro della commissione Grandi rischi, oltre che fondatore del Cima, un ente che lavora in tutto il mondo sul rischio idrogeologico.
Capimmo quel giorno che la protezione civile, se vuole funzionare, deve essere non un dispositivo burocratico ma «un sentimento popolare radicato nella profondità della memoria di generazioni», tanto più in un Paese «splendido ma a cui crollano, da sempre, templi e case per i terremoti, bruciano e muoiono animali e umani quando i vulcani si risvegliano, annegano i contadini e franano i versanti per le piogge estreme con le case». Siccardi lo scrive ora in un libro intitolato Ataviche paure (per riceverlo, www.cimafoundation.org) tratto da anni di appunti, sistemati e aggiornati durante la pandemia.
In copertina l’orto dei fuggiaschi di Pompei. Più che una storia della protezione civile, una storia psicosociale del sentimento nazionale che la genera, la irrora, la rafforza e talvolta la mette in discussione a partire dal «qualcosa di mitico che c’è nel rapporto con la paura. Chiunque, qualunque sia il suo status, nel momento in cui la catastrofe lo atterra rientra nella categoria degli ultimi».
Il rapporto cittadini-protezione civile, in quanto fondato sulla compassione, non va dunque confuso con quello governati-governanti. Motivo per cui i politici, nelle emergenze, cercano di sovrapporre la propria immagine a quella della protezione civile (abbigliamento, linguaggio del corpo, semantica, perfino location delle conferenze stampa).
Siccardi attraversa la storia da Plinio il giovane a Boccaccio. Virus docet: la paura è atavica, immutabile al mutar della società, insensibile alla dittatura della tecnologia. Anzi: più siamo abituati a sentirci protetti, più ci scopriamo fragili. Il dio di Erodoto, capriccioso e turbolento, «disegnò la percezione sociale del rischio di catastrofi per millenni, fino a oggi».
La paura non va esorcizzata, ma resa razionale. Il virus non è un nemico che ci muove guerra. «È difficile concettualizzare il fatto che esso è naturale, come la catastrofe che la malattia provoca». Impropria e fuorviante la semantica bellica. La stessa che ci fa temere «bombe d’acqua» dal cielo.
Una prima riflessione politica di protezione civile è nella lettera di Rousseau a Voltaire, dopo il terremoto di Lisbona del 1755. Sdegnato dall’uso strumentale del disastro per polemizzare con la divinità, sottolinea che non è colpa della natura aver «ammucchiato ventimila case di sei o sette piani» e ipotizza che una minore densità abitativa «avrebbe ridotto le distruzioni».
Dall’esperienza portoghese derivano le prime norme antisismiche nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato pontificio, abolite di fatto dopo l’unità d’Italia in ossequio all’uniformazione di leggi e burocrazia, essendo Piemonte e Sardegna per lo più esenti da rischio. Con lo stesso metodo, l’amministrazione pubblica del Regno estese l’antica competenza di ingegneria fluviale sviluppata nei secoli per controllare i fiumi padani.
Solo nel 1885 fu approvata la prima legge organica sulle catastrofi, assegnando in un’ottica liberale a sindaci e prefetti il potere di esproprio in caso di calamità. In realtà, mutuando l’esperienza napoletana, si utilizzava uno strumento amministrativo emergenziale a fini di sviluppo industriale, per ampliare le aree produttive.
Il Novecento è caratterizzato dalla legislazione post catastrofi. Nel 1905 leggi per gli alluvionati, l’anno dopo per sistemare i versanti del Vesuvio dopo l’eruzione che fece oltre duecento morti. Alla fine del 1908 il re proclamò lo stato d’assedio dopo il terremoto di Messina, dando a un generale perfino il potere di fucilazione. L’anno dopo venne approvata la prima legge sulla classificazione sismica del territorio. Dopo il 1915, guerra e pandemia dell’influenza «spagnola» ridussero l’impatto dei terremoti sull’opinione pubblica, e conseguentemente la reazione politica. Il fascismo intervenne con un decreto nel 1926 per disciplinare i soccorsi «in caso di disastri tellurici o di altra natura», affidando i poteri d’urgenza al prefetto e quelli emergenziali al più alto funzionario del Genio civile, sotto il coordinamento nel ministero dei Lavori pubblici. Da allora l’idea di una gestione centralizzata dell’emergenza è rimasta intangibile.
Nel 1948 il Tanaro (sempre lui) mandò sott’acqua Langhe e Monferrato. Nel decennio successivo i ministri dell’Interno Scelba e Tambroni provarono invano a riformare la «difesa civile» (concetto diverso dalla protezione, e di matrice bellica) in chiave militarista. Il boom economico e una tregua sismica fecero calare l’attenzione. Viceversa, sul fronte idrogeologico, il Polesine nel 1951 inaugurò una serie di frane e inondazioni. Quella del 1966 (Venezia e Firenze, ma non solo) con la mobilitazione degli «angeli del fango» e la risonanza mondiale scosse anche la politica. Il ministero creò in due settimane la commissione De Marchi che lavorò tre anni, consegnando una relazione lungimirante, base della successiva difesa del suolo italiano.
Nel frattempo, a livello legislativo, il ministro Taviani e il deputato Zamberletti si battevano per la prima legge organica di protezione civile. Bocciata una prima volta, riproposta dopo il disastro del Vajont e infine approvata nel 1970. Il resto è cronaca, non sempre eroica, fino alla «sciagurata riforma del 2011» e all’attuale «Protezione civile smarrita». Copyright Franco Gabrielli, che la guidò prima di diventare capo della polizia.
Siccardi racconta tutto in prima persona, medaglie e ferite le ha sulla pelle: con i capi avvicendatisi – Zamberletti (a cui dedica un intenso capitolo), Barberi, Bertolaso e Gabrielli – ha lavorato dagli Anni 80. La protezione civile cambia, la paura no. Quella di Plinio. E la nostra di oggi. Che la cacofonia pandemica non riesce ancora a razionalizzare. —