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 2021  febbraio 08 Lunedì calendario

Intervista a Fabrizio Gifuni

Un anziano che ha perso la moglie, con cui parla ancora la notte. Un disincantato ghostwriter che dalla capitale piomba nel ferrarese, incaricato di raccoglierne le memorie in un libro. Sono Renato Pozzetto, 80 anni, al suo debutto drammatico e Fabrizio Gifuni, 54 anni, in uno di quei personaggi storti che gli riescono bene. Il film di Pupi Avati è tratto da Lei mi parla ancora di Giuseppe Sgarbi, padre di Vittorio e Elisabetta. Si vede da oggi su Sky Cinema e Now Tv. «Mi è piaciuta l’invenzione di Pupi di fare un film non tanto su libro, ma sul modo in cui nasce, inserendo i due personaggi – racconta l’attore sul balcone di un albergo romano con vista su Piazza Cavour – Il mio rappresenta l’irruzione del contemporaneo in questo mondo novecentesco di memorie e ricordi, il suo punto di vista è quello dello spettatore, che sul fronte anagrafico entra con difficoltà in una storia d’amore lunga 65 anni».Il suo è uno scrittore frustrato, costretto alle biografie di cuochi e calciatori.«Mi piace lavorare sulle sue fragilità, sulle mancanze, sulle storture. Il ghostwriter fa qualcosa di simile all’attore, entra nelle vite degli altri.Ma io il mestere l’ho scelto e lo vivo con allegria: faccio finta che sono il broker del Capitale umano o la Belva ».Com’è stato affiancare Pozzetto?«Ho giocato sul contrasto tra i personaggi. Sono cresciuto con Cochi e Renato e quella comicità surreale della grande scuola milanese. Ho visto tutti i film di Renato, da Sono fotogenico a La patata bollente. Pupi ha voluto che non ci incontrassimo fino al primo giorno, per lasciare la diffidenza reciproca. Ci siamo annusati e per magia si è creata una bella sintonia».Il suo primo film anche con Avati.«È un regista che ti lascia libero, ma ti ascolta e il suo banco di prova è se ci crede. Ho amato i suoi film, Regalo di Natale su tutti, per la verità dei dialoghi. Il nostro è un film sulla capacità curativa dell’arte, di un gesto artistico come la scrittura di un libro che riesce a trasformare le ferite in bellezza. Partiamo entrambi dai dolori, la perdita della moglie o le nevrosi di un divorzio. E il nodo del film è che siamo fatti di memorie che si sedimentano ed entrano in relazione con quelle degli altri. In questo momento in cui siamo fragili e insicuri sul domani, questa favola concreta ci cura l’anima».Un’immagine che le resta del set?«Una sorta di incubo distopico: in piena estate con un caldo torrido. Le mascherine, i vestiti invernali, la neve finta. In Piazza del Popolo con Gioele Dix, entravo e uscivo dal bar per asciugarmi i capelli. Nella scena in cui io e Nicola Nocella spingiamo la macchina in salita sulla neve, non ci accorgiamo che dietro c’è una discesa che va dritta al fiume. L’auto scivola giù con noi aggrappati.Nicola, a dispetto della mole si tuffa in auto e tira il freno a mano».Torniamo ai personaggi storti.«Mi piace l’imperfezione perché non sono un attore alfa. Non mi sento mai sicuro, comodo. Alla fine dal senso di inadeguatezza ho tratto la forza. Mi aspetto sempre che sul set qualcuno dica “ho capito, accomodati fuori"».Invece a teatro è a casa sua.«Sì, lì recitare è l’ultima parte di un processo ideativo. Al cinema gioco da interprete puro. Virzì sul set di Il capitale umano mi prendeva in giro: "Bruni Tedeschi, Golino, Bentivoglio, sei l’unico che non dirige"».E quando si rivede sullo schermo?«All’inizio un macello, poi cerco di farci pace. Su questo fronte La belva è stato terapeutico, ho puntato sull’azione. Quel successo è stata una sorpresa per la pigrizia con cui si incasellano gli attori».L’amore per sempre che racconta Avati oggi è impossibile?«È più difficile, ma poi non so: mia figlia quindicenne si è fidanzata da qualche mese, dice che sarà per la vita e s’arrabbia se non la prendiamo sul serio. Quella spinta ce l’abbiamo tutti. Ma è come se la società dei consumi avesse fagocitato anche i sentimenti. Tutto si rompe, si sostituisce. Navighiamo nella precarietà, fare l’attore ormai è non è un mestiere più precario di altri».Per lei fu una scelta sofferta?«Mi innamorai del teatro al liceo facendo Romeo e Giulietta, stare lì era la cosa che somigliava di più alla felicità. Ma non l’ho detto a nessuno.I miei l’hanno saputo quando mi hanno preso all’Accademia. L’hanno presa bene, spiazzandomi»».Nel film c’è il tema della memoria.«Gli attori sono gli ultimi depositari dell’arte antica della memoria, oggi non ci ricordiamo nemmeno cinque numeri di telefono, le nostre memorie sono svuotate nell’hardware e nei software».La memoria collettiva?«Sono refrattario ai complotti, ma se c’è stato un piano scientemente portato avanti negli ultimi anni è stato quello di distruggere la memoria storica del Paese. Perché così non solo puoi arrivare a negare la Shoah e rendere la Resistenza divisiva, ma puoi far dimenticare ciò che hai detto il giorno prima».Che sentimento ha sul futuro?«Un insensato ottimismo del cuore, rispetto alle capacità delle nuove generazioni. Con l’associazione degli attori Unita lottiamo insieme.Vogliamo aiutare i ragazzi delle scuole di cinema e teatro che scommettono su questo sogno».Quanto le manca il palcoscenico?«Lo sogno a occhi aperti ogni giorno.Vedo la folla a Porta Portese e penso al cinema dietro casa chiuso: qualcosa non torna.Non si possono far fallire compagnie aeree e Ferrovie, ma dei teatri chissenefrega. Bisogna ripartire, prima che si può».