Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 08 Lunedì calendario

Intervista a Valdo Spini. Parla di Draghi


Il socialismo liberale sta per conquistare Palazzo Chigi?
L’ipotesi non è avventata. Sei anni fa, in un’intervista a Die Zeit, è stato lo stesso Mario Draghi a richiamarsi alla geografia culturale di Carlo Rosselli.
«Un’appartenenza difficilmente contestabile», dice Valdo Spini, per trent’anni parlamentare di ispirazione socialista, ministro nel governo Ciampi, da sempre propugnatore di ideali e pratiche della famiglia riformista.
In che cosa Mario Draghi è un socialista liberale?
«Non lo abbandona mai una duplice consapevolezza: da un lato sa bene che è l’impresa a produrre il reddito, ma sa anche che una società è giusta quando sana le diseguaglianze. Da qui la rivendicazione di un ruolo attivo dello Stato per difendere sia i cittadini che le imprese».
Fu Draghi governatore della Banca d’Italia a invocare un sistema di protezione sociale molto forte per lavoratori in difficoltà.
«Sul piano della politica economica e monetaria è stato allievo di Carlo Azeglio Ciampi, il premier a cui dobbiamo l’importante accordo tra sindacati, imprenditori e governo nel luglio del 1993: mi sembra evidente la distanza dal governo tecnico di Monti! Io credo che Draghi si muova più nel solco tracciato dal maestro livornese, che non a caso era un azionista, partigiano insieme al liberalsocialista Guido Calogero. E anche in un recente intervento all’Università Sant’Anna di Pisa, Draghi è tornato insistentemente su un principio chiave del socialismo liberale: ogni intervento di politica economica va soppesato in base all’impatto sulle classi più svantaggiate».
In questo si sente anche la lezione di Federico Caffè, il professore con cui Draghi s’è laureato.
«Caffè era uno dei pochi economisti dichiaratamente di sinistra della sua epoca. Nel governo Parri era stato capo di gabinetto del ministero della Ricostruzione. Fu importante l’anno trascorso alla London School of Economics quando il governo laburista metteva in pratica il socialismo liberale (tra il 1945 e il ’51): le idee appartenevano a due liberali inglesi, John Maynard Keynes e William Beveridge, ma a realizzarle erano le forze politiche socialiste».
C’è un aspetto etico del socialismo liberale che lo distingue dal liberismo?
«I liberisti hanno una concezione agonistica rude per cui le società vanno avanti indipendentemente da chi resta sul terreno: agli ultimi penserà “il capitalismo compassionevole”, per usare le parole di George Bush jr. Il socialismo liberale comporta un’etica della responsabilità collettiva e quindi la necessità di interrogarsi su quali siano gli effetti delle politiche economiche sui ceti più fragili, come ha ricordato Draghi a Pisa. Le società si sviluppano tanto più e meglio quanto più è garantito il diritto al lavoro, all’istruzione, alla protezione sociale. Tutti principi presenti nelle riflessioni del premier incaricato».
Lei ha scritto che la pandemia ha ridato slancio alle tesi del socialismo liberale. Perché?
«Il virus ha accentuato le diseguaglianze paralizzando un ascensore sociale già fortemente rallentato. In un quadro del genere chi potrebbe invocare il liberismo?
Soprattutto quando l’Europa mette in moto interventi così ingenti come i 209 miliardi del Recovery Fund?
Naturalmente non si può pensare di risollevare l’economia soltanto con l’intervento pubblico. Oggi c’è bisogno di una nuova imprenditorialità. E in questo equilibrio vedo l’attualità del socialismo liberale».
Draghi è un cattolico come lo era Ciampi. Come si conciliano fede cattolica e socialismo liberale?
«I nostri padri e nonni erano anticlericali perché c’era stato il matrimonio tra la Chiesa cattolica e il fascismo. Ma oggi c’è Francesco, che mette al primo posto solidarietà e fraternità. In una società politica che perde valori e ideali, la fede religiosa diviene un elemento di forza, se concepita laicamente».
Draghi sembra somigliare a Ciampi anche nella riservatezza sulla sua vita religiosa: non abbiamo una fotografia di Ciampi presidente della Repubblica che fa la comunione.
«Pensi alla giornata di ieri, domenica. Quanti politici al posto del premier incaricato si sarebbero messi in mostra davanti all’altare? Al telegiornale non ho visto immagini di Draghi a messa».
Il socialismo liberale fa parte della geografia culturale della sinistra. Ne dovremmo ricavare che Draghi è di sinistra. Non le sembra una forzatura?
«Non voglio tirarlo per la giacchetta, ma giudico totalmente incongrua la tendenza a regalare Draghi alla destra. E allora bisogna ricordare l’intervista a Die Zeit in cui si dichiara socialista liberale».
In quell’occasione si riferiva ai suoi trascorsi giovanili, rispondendo a una domanda sul Sessantotto: il suo socialismo liberale lo aveva allontanato da ogni forma di estremismo.
Aggiungeva che all’epoca portava i capelli abbastanza lunghi, non troppo, e che non era mai stato un contestatore anche perché non aveva più i genitori contro cui ribellarsi.
«Sì, appena adolescente si era trovato nella condizione di capofamiglia. Io l’avrei conosciuto alla metà degli anni Settanta a Firenze, dove insegnavo alla facoltà di Scienze politiche: Draghi era un giovanissimo professore incaricato di Economia monetaria. Affabile, molto serio, tutt’altro che algido. Un riformista appassionato».