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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

Le piante da interno, astute e permalose

Dentro casa e nel mio studio le piante sono ovunque. Non vorrei sembrare un fanatico ma faccio fatica a stare lontano dal mondo vegetale anche solo per poche ore: la vicinanza delle piante mi aiuta a compensare la privazione dell’orizzonte, dona benessere e ispirazione. Mi viene talmente spontaneo circondarmene che fino a poco tempo fa non avevo mai fatto caso che non sia così per tutti. 
Questa consapevolezza ha preso forma leggendo le statistiche di come hanno reagito le persone di tutto il mondo quando si sono trovate confinate nelle loro abitazioni durante i recenti lockdown. Perfino se non se ne erano mai interessati tutti hanno scoperto che le piante possono essere molto più che un elemento di decoro. Improvvisamente questi organismi misteriosi, cui per troppo a lungo nessuno aveva più fatto caso, si sono guadagnati lo status di esseri viventi, al pari degli animali domestici con cui condividiamo la nostra vita. A dispetto della loro apparente fragilità, gli organismi vegetali sono molto più adattabili di quanto saremmo noi, povere scimmie tropicali nude, se fossimo allontanati dall’equatore senza protezione alcuna. Inoltre per dare continuità alla loro vita hanno elaborato stratagemmi elementari molto efficaci, per esempio molte specie diverse, quando stanno per morire, fioriscono esageratamente per dedicare tutte le risorse rimaste nella formazione dei semi, cioè embrioni pronti a rivitalizzarsi. 
Tutto ciò impone un ragionamento su priorità, concetto di cronologia vitale e rapporto con l’altro: tutti gli altri, in particolare con la nostra società di uomini. Provo a fare qualche esempio domestico per capirci meglio: la Monstera deliciosa del mio soggiorno, mi è assai grata per averla salvata in extremis da una portineria piena di correnti d’aria, manifesta continuamente la sua gratitudine gettandomisi addosso tutte le volte che mi avvicino al divano. Ma, dato che non è un labrador e non può seguirmi ovunque, si limita a vivere con entusiasmo alla giornata. Mentre la Ceropegia woodii, mi ricorda Igor del film Frankenstein junior, si muove più astutamente in esplorazione. Un istante prima è da una parte, poi appaiono le sue gobbette radicali dentro un altro vaso: se ne staranno unite da un cordone ombelicale composto da una ghirlanda di piccole foglie cuoriformi marmorizzate fino a che parte del loro corpo non avrà deciso di trasferirsi altrove. In bagno ho un Tetrastigma voinerianum, un rampicante imponente che ricorda la vite per lunghi viticci a spirale sulla punta dei germogli. È una pianta vigorosa, allo stesso tempo ha un carattere capricciosissimo: odia letteralmente essere spostata. Guai a farlo! La reazione potrebbe essere quella di perdere intere porzioni di rami facendoli staccare tra un internodo e l’altro, come per maleficio, per avvertimento. Anche le begonie sono permalose: mai cadere nella tentazione di rinvasarle in contenitori più grandi prima di una reale necessità. Detestano smarrire le radici in troppa terra, le farebbero marcire piuttosto. 
Non c’è nulla di peggio del desiderare condividere la casa con piante che ci instillano il dubbio che noi, come loro, non siamo sempre a nostro agio in casa, anzi spesso sopravviviamo dentro una gabbia che non è confortevole neanche per noi. 
Il tema natura e architettura è diventato molto attuale e le piante sono sempre più presenti nei progetti di architettura, tanto dall’essere diventate immagine stessa di modernità ambientalista. Ma cemento e piante sono davvero un amore impossibile? Dopo i progetti innovativi di New York che dalla fine degli anni Sessanta, a fasi alterne, hanno portato a far dialogare sempre più virtuosamente l’architettura con la natura, oggi siamo arrivati a intuizioni progettuali e amministrative che hanno permesso al paesaggismo di esprimersi con una forza tale da diventare il motore per il rilancio di interi quartieri. Ne è esempio il poetico parco lineare della High Line progettata da Piet Oudolf insieme agli architetti James Corner e Charles Renfro: chi avrebbe mai pensato che un uomo di piante potesse partecipare con simile autorevolezza a un team di progettazione? Manhattan non è nuova a questi esperimenti di architettura ibrida che riescono a portare ai livelli più alti la contaminazione tra cemento e alberi, in un certo senso è sempre stato il cavallo di battaglia di questa città caotica fin dai suoi albori. Almeno fin dal progetto urbanistico che ha posto Central Park al centro di tutta la città, con il progetto di Frederick Law Olmsted inaugurato nel 1856. 
Per me che sono nato oltre un secolo dopo e ho avuto la fortuna di frequentare a lungo New York fin da bambino, quel grande rettangolo verde è stato indispensabile per insegnarmi come stare a mio agio anche in mezzo alla città. A New York, la natura trova spazio tra i grattacieli su tutte le scale, come una violacciocca sulle torri di San Giminiano, stretta tra il cemento ma senza perdere la sua identità. Proprio come quei piccoli scampoli di natura che pullulano altrove nella Grande Mela: da Paley Park, ai bambù dell’IBM building, dalla giungla della Ford Foundation, al giardino del MOMA o del Noguchi Museum del Queens. Dai Community Gardens americani a Barcellona dove, tra gli anni Ottanta e i Novanta i giardini nascevano nelle zone degradate della città come esperimento felice di una nuova progettazione dello spazio pubblico: uno strumento democratico per una condivisione del bello e della riqualificazione del paesaggio. 
Contemporaneamente in Francia si stava inaugurando una nuova era per l’architettura del paesaggio, soprattutto grazie a Gilles Clement, il più grande di tutti noi. Progettista, attivista, filosofo: Clement è un intellettuale che ha rivoluzionato i presupposti della relazione tra le piante e il paesaggio. Gli anni Duemila poi hanno marcato il punto di ripartenza per i giardini pieni di fiori e di piante decorative, e grazie alla disarmante complessità degli accostamenti tra le sue piante, Oudolf è riuscito a modernizzare lo stile dei giardini anglosassoni. Con i suoi accostamenti magici di erbacee perenni ha dimostrato la stessa eleganza e dimestichezza con l’improvvisazione che paragonata alla musica potrebbe essere il celebre My favourite things di John Coltrane. 
Stregata dall’invenzione dei muri verdi di Patrick Blanc, l’architettura ha poi definitivamente permesso al mondo vegetale di entrare tra i suoi elementi. Blanc: un botanico specializzato nello studio della vegetazione dei sottoboschi tropicali di mezzo mondo, poi passa a studiare come coltivare le piante nello spazio per conto dell’Ente aerospaziale europeo, e lì ha l’intuizione di trasformare questa ricerca in qualcosa di più, così brevetta i muri verdi. La vitalità di quelle facciate pullulanti di piante è così potente da andare ben oltre la funzione di decoro. 
A Milano abbiamo il Bosco Verticale, una intuizione dell’architetto Boeri: un grattacielo coperto di ampi terrazzi che ha portato in elevazione la densità vegetale che si sarebbe potuto installare più convenzionalmente a terra. È un ulteriore ode al bisogno di natura in città a testimonianza che piante e cemento sono un ossimoro che stimola gli architetti da sempre: torre Guinigi di Lucca con la sua corona di lecci, Fallingwater di Frank Lloyd Wright, Organic Building di Gaetano Pesce, l’architettura topografica a Fukuoka di Emilio Ambasz. Solo che oggi, le utopie non bastano più: siamo a un punto di svolta che deve sancire ancora più definitivamente e democraticamente la nostra relazione con la natura. Lo si può fare con le piante a partire dalle nostre abitazioni e da tutti gli scampoli di territorio che ci circondano, affrancandoci dalle discriminazioni di stile, senza cadere nella tentazione di cercare niente di più che la natura. 
Oltre a noi c’è un universo parallelo che si insedia silenziosamente in ogni scampolo di territorio lasciato a sé stesso, dove avvengono continue, inevitabili, trasformazioni di riqualificazione ambientale operate dalle stesse piante che ci premuriamo di contenere senza logica, a caro prezzo. Il progetto potrebbe dunque trovare terreno fertile proprio nel dialogo tra noi e il mondo selvatico, condividendo l’obbiettivo di vivere. Tutto ciò potrebbe portarci a creare, con ottimizzazione delle risorse, un apparato immunitario del paesaggio urbano: sia sotto forma di piante singole, sia come comunità vegetali più complesse. Assecondando la natura spontanea l’ambiente sarebbe migliore con costi più contenuti. Basterebbe partire con l’abbattimento di tabù teorici come il controverso rapporto tra tutela del territorio e piante esotiche, tra giardino e paesaggio, tra società e mondo selvaggio. Imparare a osservare le piante selvatiche in città potrebbe stimolare una potenzialità innata che abbiamo tutti, l’arte di saper vedere giardini invisibili.