Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021
QQAN70 Antiquari della Roma sabauda
QQAN70
Sul fronte della storia del mercato dell’arte che si praticò a Roma dopo l’unificazione italiana, il 2020 è stato veramente (consoliamoci così) un anno propizio. Infatti, ha visto dapprima apparire la formidabile ricognizione sul tema curata da Paolo Coen, dal titolo Il recupero del Rinascimento. Arte, politica e mercato nei primi decenni di Roma capitale (1870-1911) (Silvana Editoriale), presentata su queste pagine da Salvatore Settis. A seguire è arrivato ora il volume Capitale e crocevia. Il mercato dell’arte nella Roma sabauda, a cura di Andrea Bacchi e Giovanna Capitelli, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi alla Fondazione Zeri di Bologna nel 2017 dedicato a Mercanti, collezionisti e conoscitori nella Roma sabauda (1870-1915).
Benché si tratti di letteratura per specialisti, questi atti sono talmente ricchi di fatti, personaggi, avventure e aneddoti da proporsi come lettura avvincente e interessante davvero per tutti. Vediamo di offrirne qualche assaggio.
Con l’elezione di Roma a capitale del regno, la Città Eterna mantenne un ruolo determinante nel panorama artistico internazionale, con le antiche accademie in attività, la presenza della comunità cosmopolita di artisti, la nascita di nuovi musei, l’incremento di un alto artigianato, ma soprattutto l’affermazione di un vivace mercato artistico a carattere prevalentemente “estrattivo”. L’aggettivo “estrattivo” non è un garbato eufemismo: le “estrazioni” indicavano nell’Ottocento ciò che noi oggi chiamiamo “esportazioni”. A partire dal 1870, massicce speculazioni edilizie misero a disposizione del mercato (quasi quotidianamente) una grande quantità di “anticaglie” provenienti da scavi e sterri. Poi, iniziarono le dispersioni delle collezioni del patriziato romano afflitto da crescenti difficoltà economiche. E ancora la demanializzazione di chiese e conventi sradicò dai contesti e mise a disposizione del mercato una notevole quantità di opere d’arte di grande pregio. Insomma, la materia prima per il mercato non mancava e in una situazione così favorevole non stupisce che a Roma si affermassero in pochi decenni figure professionali di prim’ordine, capaci di inventare modalità di vendita, forgiare gusti e allacciare rapporti commerciali a vasto raggio, tali da alimentare con dovizia le grandi collezioni d’Europa e d’America.
Tra i meriti del libro vi è quello di dedicare ampi medaglioni biografici ai principali protagonisti di questa singolare epopea, che furono, ad esempio, gli antiquari Attilio Simonetti e Giuseppe Sangiorgi, con le loro leggendarie gallerie.
Virginia Napoleone ripercorre la storia della Galleria Simonetti. Pittore di formazione, il fondatore Attilio Simonetti passò presto dalla pittura all’antiquariato, aprendo una galleria dapprima in Palazzo Altemps e poi in Palazzo Odescalchi. Nei successivi decenni, coadiuvato dai figli, Simonetti fece diventare la galleria un centro di scambi artistici a livello globale, favorito dalla crescente diffusione della fotografia e dall’incremento della mobilità transoceanica di opere e persone. Simonetti fu anche abile nel porsi al centro di un vortice di “addetti ai lavori” (battitori d’asta, intermediari, storici dell’arte, consulenti, eccetera) che contribuirono al successo della sua impresa. Ebbe persino l’idea di creare la prima associazione di antiquari d’Italia (la Società Italiana Cultori e Commercianti di Antichità e Belle Arti) per difendere i diritti del commercio negli anni in cui lo Stato italiano stava mettendo in campo le severe leggi di tutela del patrimonio, alquanto restrittive rispetto alla libera circolazione delle opere d’arte. Ma questo, comunque, non impedì alla Galleria Simonetti di spedire in America nel 1928 ben 82 casse ricolme di marmi antichi, finestre gotiche ed altri elementi architettonici destinati ad abbellire la nuova residenza del magnate-collezionista William Randolph Hearst.
La visita alla galleria di Simonetti in Palazzo Odescalchi era un’esperienza unica: si potevano ammirare – eccezionalmente illuminate dalla nuovissima elettricità – sale e sale affastellate di oggetti (marmi, dipinti, arredi, arazzi, bronzi, vetri, armature, medaglie e persino guanti e scarpe), il cui commercio portò a tale ricchezza il proprietario che, nel 1904, Simonetti fu in grado di acquistare il palazzo di via Vittoria Colonna dal principe Baldassarre Odescalchi per la considerevole somma di 700mila lire. Da allora il palazzo si chiamò Simonetti-Odescalchi.
Rispetto al suo illustre collega, l’antiquario Giuseppe Sangiorgi (tratteggiato da Francesca Mambelli) non proveniva dal mondo dell’arte. Si era fatto da solo, dedicandosi a svariate attività imprenditoriali (vendite di macchine da cucire, esportazione di derrate alimentari, estrazione della pietra pomice) prima di abbracciare la professione del commercio artistico. Professione alla quale si avvicinò grazie alla Massoneria, di cui divenne membro e mediante la quale potè disporre di contatti e clientele altolocate che gli permisero di decollare nell’attività. Anche lui aprì la galleria in una prestigiosa sede, il pian terreno di Palazzo Borghese (al primo piano, guarda caso, c’era la sede del Grande Oriente massonico), e da lì intraprese la sua sfavillante carriera, di cui si conoscono, ad esempio, i riscontri economici: dalle 40mila lire incassate nel 1892 (anno d’avvio dell’attività) ai 4 milioni di lire guadagnati nel 1922.
Ma è interessante apprendere come egli arrivò a questi risultati. Sangiorgi intuì il grande potere della pubblicità: fece incollare manifesti sui muri nei punti più turistici di Roma (compreso il Foro) e comperò in abbondanza moduli pubblicitari su giornali italiani e stranieri. Inoltre, trasformò i vernissages nella sua galleria in imperdibili eventi mondani, organizzò aste periodiche e stampò sontuosi cataloghi illustrati (la ricca fototeca Sangiorgi verrà in seguito acquisita da Federico Zeri). Ma c’è di più. Nei periodi commercialmente morti (estate e primo autunno) Sangiorgi si metteva in viaggio alla ricerca di collezioni da acquistare e di clienti a cui rivenderle. E non mancò di circondarsi di autorevoli consiglieri (uno era Giacomo Boni) e di agenti da mandare all’estero, come Giovanni Walser che seguì i suoi interessi a Londra e New York. Un ultimo aspetto, non trascurabile, delle sue strategie commerciali fu quello di far realizzare da abili artigiani molte opere d’arte in «stile antico». L’intenzione era buona: vendere oggetti belli a prezzi accessibili a una clientela meno abbiente ma assai più numerosa. Il guaio fu che molti di questi “pezzi antichi” (spesso piuttosto ben fatti) vennero presi per buoni da storici dell’arte dall’occhio malfermo e da intermediari senza scrupoli e andarono direttamente a foraggiare il fiorente sottobosco dei falsi.
È utile ricordare, infine, che a occupare la piazza del commercio artistico romano non furono solo i grandi antiquari (tra cui va annoverato Alessandro Castellani), ma operarono anche, in forme più occulte, autentici outsider della professione: ad esempio i preti. Nel libro, Maria Saveria Ruga riserva un dettagliato medaglione a don Marcello Massarenti, elemosiniere pontificio di tre papi (Pio IX, Leone XIII e Pio X), dotato (forse) di grande fede ma certamente di notevoli ricchezze personali e di una spiccata passione per il collezionismo. Nel suo appartamento di Palazzo Rusticucci-Accoramboni, e in vari magazzini dislocati in città, il prelato arrivò ad accumulare un’impressionante raccolta d’arte composta da antichità romane (statue e sarcofagi) e da dipinti di alta epoca. A un certo punto, «per la sua grave età», il sacerdote decise di vendere tutto all’estero, offrendo la mirabolante raccolta prima (senza successo) al Metropolitan Museum di New York e poi (felicemente) al magnate Henry Walters di Baltimora. Correva l’anno 1902: partirono da Roma 275 casse di opere, vendute al prezzo di un milione di dollari! Neppure il più abile degli antiquari romani sarebbe riuscito a fare di meglio.