Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021
L’unica vita che avremmo potuto avere
A venticinque anni frequentai un corso abilitante per insegnare storia e filosofia nelle scuole superiori. Era solo per accontentare mia madre; non avevo nessuna intenzione di darvi seguito. Fin da bambino, due cose mi erano chiare: da grande volevo fare il professore universitario e avere la barba. La barba ormai l’avevo; per conseguire il mio altro scopo dovevo dedicarmi alla ricerca, quindi qualunque cosa me ne distraesse andava respinta. Il futuro, però, aveva in serbo una sorpresa. Al corso, uno dei docenti mi informò di aiuti economici che governi stranieri offrivano a cittadini italiani per svolgere, appunto, ricerca; e fu così che qualche mese dopo mi trovavo all’Università di Toronto, a lavorare con il più grande specialista al mondo nell’area di studi in cui ero allora impegnato. Come conseguenza, ho trascorso la maggior parte della mia vita adulta negli Stati Uniti, l’inglese è diventato la mia seconda lingua madre e oggi ho tre figli e cinque nipoti che sono cittadini americani.
Mi è capitato di pensare a quel che sarebbe stato di me se non avessi frequentato quell’inutile corso (che, naturalmente, non ebbe alcun seguito): se mi fossi intestardito a non «sprecare» le trecento ore che richiedeva. È un pensiero piuttosto comune: capita a tutti di rimuginare, a volte, su quel che sarebbe loro accaduto se avessero sposato un’altra persona, intrapreso un’altra carriera, cambiato indirizzo o rete di amicizie. Se, in breve, avessero vissuto un’altra vita. Sulle numerose e complesse ramificazioni di questo pensiero verte On Not Being Someone Else, di Andrew Miller.
Nessuno di noi, afferma Aristotele nell’Etica Nicomachea, vorrebbe avere tutto il bene del mondo se per averlo dovesse rinunciare alla propria identità, a essere sé stesso; ed è arduo dargli torto. Io non vorrei essere geniale come Einstein, creativo come Leonardo o avvenente come Paul Newman se ciò significasse che vengo sostituito da Einstein, Leonardo o Paul Newman: mi piacerebbe che le loro qualità fossero mie, certo, ma dovrei essere io a goderne, ad avere coscienza di goderne. Detto questo, però, il passo successivo non è affatto ovvio: stabilito che un Ermanno che non avesse frequentato il corso abilitante e non fosse finito in America è diverso dall’Ermanno reale, quanto può essere diverso senza cessare di essere me?
Leibniz dà una risposta radicale. Tutto ciò che esiste, per lui, è associato a un concetto completo che specifica ogni suo minimo dettaglio: se dunque si cambiasse un solo dettaglio, non sarebbe più la stessa cosa. Nella Teodicea, fa l’esempio di Sesto Tarquinio: se non avesse violato Lucrezia, non sarebbe stato Sesto. Ci sono, per Leibniz, mondi possibili diversi da quello reale in cui un uomo molto simile a Sesto non viola Lucrezia; ma a dispetto della somiglianza non si tratta dello stesso uomo. Noi magari possiamo confonderci, perché abbiamo una visione limitata dell’identità di Sesto; ma Dio, il cui sapere non ha limiti, vede lucidamente la differenza.
Dunque il nostro speculare su destini alternativi, sui bivi che ci si sono aperti davanti e su ciò che saremmo stati se avessimo scelto una strada che di fatto non abbiamo scelto, sarebbe tanto rumore per nulla: frutto di un semplice malinteso, perché la strada che abbiamo scelto era l’unica che potevamo scegliere? L’assoluto determinismo leibniziano sarà consolante se la nostra scelta si è rivelata fallimentare; ma è forse una consolazione a buon mercato, contraddetta dalla naturale tendenza a provare rimorso, rimpianto o (più raramente) sollievo per le nostre possibilità che non abbiamo realizzato. E, spiega Miller (che insegna letteratura inglese alla Johns Hopkins University), contraddetta anche dalle infinite storie che raccontiamo: in romanzi, poesie, film, drammi.
Talvolta un’opera tematizza la scelta fra una vita e un’altra. In He Knew He Was Right, di Anthony Trollope, Nora Rowley ha appena rifiutato la proposta di matrimonio di Charles Glascock quando comincia a interrogarsi sulle opportunità di cui si è privata. In The Jolly Corner, di Henry James, Spencer Brydon, tornato a New York dopo lunghi anni spesi in Europa, cerca nella sua vecchia casa «il mondo che avrebbe potuto fiorire per lui se non lo avesse abbandonato». In It’s a Wonderful Life, di Frank Capra, George Bailey/James Stewart è prossimo al suicidio quando l’angelo Clarence lo ferma e gli mostra che cosa sarebbe successo alla sua cittadina se lui non fosse mai nato.
Ma, anche se il tema non viene affrontato apertamente, la sua presenza incombe: in ogni storia, quale che ne sia la trama, si disegnano personaggi e vite possibili, e, perché ci catturino, perché sorga il desiderio di seguirli, deve innescarsi in noi un qualche livello di immedesimazione – devono apparirci, a un qualche livello, come personaggi che avremmo potuto incarnare, vite che avremmo potuto vivere.
«Omnis determinatio est negatio» è una clausola che ha avuto varia fortuna in Spinoza, Kant e Hegel. Una sua interpretazione illuminerebbe l’enfasi posta da Miller non solo su chi uno è ma anche su chi non è: le mille decisioni che non abbiamo preso servono a chiarire, per contrasto, quelle che abbiamo preso; una figura si vede meglio quando risalta su uno sfondo. Ma non è tutto qui: l’enfasi ha anche un aspetto positivo. Quel che non siamo stati, quel che un altro è stato, può essere parte di noi; e un artista può compiere il miracolo di farlo affiorare.
Maestri di questa magia, secondo Miller, sono i poeti, «virtuosi del singolare e plurale». Una poesia è, di solito, intensamente e intimamente privata; spesso lo è in modo esplicito, utilizzando il pronome «io»; eppure, se ha da compiere il suo incantesimo, quell’«io» deve dar luogo a un «noi», l’io del lettore vi si deve riconoscere. Io, inteso come Ermanno, non ho mai parlato a una capra e non sono mai stato un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato; ma Saba e Ungaretti mi consentono di appropriarmi di queste esperienze, di allargare la mia identità. «Direte che è solo una fantasia» scrive Miller «ma vi risponderei che sottovalutate quanto della vita che viviamo è fantasia»: quanto, dell’Ermanno che non è andato a Toronto (e non è stato in guerra, e non ha avvicinato una capra, e non si è cresciuto la barba) è presente in me. Quanto di ciò che non sono, degli scampoli di esistenza che ho tralasciato o neppure degnato di uno sguardo, mi definisce al pari di quelli che ho raccolto.