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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

1QQAN40 In difesa di Piero «il fatuo»

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In quali forme si sedimenta la nuova conoscenza storica? Non tutti gli studiosi seguono un’unica strada – e le preferenze dei singoli obbediscono spesso a segrete inclinazioni individuali. C’è il ricercatore che punta a ridefinire un campo di studi attraverso una nuova narrazione complessiva. C’è lo specialista che procede accumulando un numero di contributi particolari e che a poco a poco riesce a sovvertire l’intero quadro senza prodursi mai in un racconto alternativo. C’è l’esperto che si concentra solo sulle figure e sugli snodi principali – quelli che sono entrati persino nell’immaginario dei non addetti ai lavori. E c’è lo storico che sonda il terreno a caccia di oggetti di ricerca solo apparentemente minori che, una volta indagati a dovere, gli consentono di gettare nuova luce sulle questioni decisive: e lì rivolge tutte le proprie attenzioni.
Negli studi sulla Firenze del Rinascimento Alison Brown rappresenta forse meglio di chiunque altro quest’ultima tipologia. Autrice di un buon numero di saggi che meritano l’appellativo di classici, nella sua lunga carriera di studiosa Brown ha composto anche tre monografie, due delle quali esemplificano perfettamente questo particolare approccio (la terza essendo invece una storia della riscoperta fiorentina del De rerum natura di Lucrezio e dell’epicureismo). La prima di esse, pubblicata nel 1979, è una biografia di Bartolomeo Scala: sino a quel momento il meno conosciuto dei grandi umanisti che ricoprirono a Firenze la carica di cancelliere della repubblica, in una serie che include figure di primissimo piano quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini e Niccolò Machiavelli. La seconda, appena uscita in inglese ma ispirata a un’intuizione analoga, racconta invece la vita del più importante membro della famiglia Medici rimasto ai margini della ricerca: il figlio di Lorenzo il Magnifico noto come Piero «il fatuo» o Piero «lo sfortunato» (1472-1503).
A detta degli strutturalisti, ogni volta che in un testo si toglie (o si aggiunge) un elemento, è il significato dell’intera opera a mutare. Qualcosa di simile si può dire però anche delle biografie di Brown: le quali, con l’inserimento di un nuovo tassello in una sequenza altrimenti ben conosciuta, ne modificano il senso complessivo, obbligando a riconsiderarla tutta. Nel caso di Piero di Lorenzo de’ Medici and the Crisis of Renaissance Italy le novità maggiori riguardano niente meno che la natura dell’esperienza medicea nel Quattrocento. Nel 1492 Piero ereditò dal padre il governo informale di Firenze, e in due soli anni riuscì a perdere tutto, travolto dalla inarrestabile discesa in Italia dei francesi di Carlo VIII, che in Toscana condusse all’affermazione della repubblica savonaroliana. Alla luce di questa disfatta, anche comprensibilmente la storiografia si è mostrata sempre assai severa con l’ultimo dei Medici quattrocenteschi (prima che un altro terremoto politico li riportasse in città nel 1512), limitandosi sostanzialmente a ripetere il giudizio ostile e talvolta irridente dei contemporanei, tra cui Francesco Guicciardini. Ed è proprio questa liquidazione sommaria che adesso Brown convincentemente contesta.
Era davvero Piero un governante inetto, interessato soltanto a fare sfoggio in pubblico della propria abilità nel calcio fiorentino? O il figlio di Lorenzo fu invece semplicemente la vittima di una contingenza politica tanto imprevedibile quanto irrimediabile? Seguendolo nelle sue molteplici attività di diplomatico, banchiere, politico, poeta e mecenate (e nei suoi svaghi privati) Brown aiuta i lettori a sottrarsi all’alternativa secca tra i due soprannomi con cui la tradizione ce lo ha tramandato. Dalle sue pagine emerge così una figura assai complessa: brillante pupillo di un umanista del calibro di Angelo Poliziano (che gli faceva leggere Livio in latino a quattro anni e la Commedia di Dante a cinque e gli insegnò bene anche il greco antico), apprezzato sportivo, sin troppo astuto e spregiudicato nei doppi giochi politici, capace di grande impegno ma anche di abbandonarsi a lunghi periodi di inerzia, che inducono l’autrice a parlare – nel nostro moderno lessico medico – di bipolar nature. Ne viene fuori un vero e proprio «ritratto paradossale» dove virtù e vizi si incrociano continuamente (un ritratto – per intendersi – più alla maniera di Sallustio e Tacito che di Plutarco), e che ha il grande merito di affrancare definitivamente Piero dagli stereotipi che lo hanno accompagnato per oltre cinquecento anni.
Esemplare è il modo in cui Brown studia per esempio i trionfi sportivi di Piero. I fiorentini del tempo criticarono il suo essere «troppo inclinato al giuoco della palla col pugno e col calcio» (come scrisse Iacopo Nardi), ma di questa passione è possibile dare anche una lettura meno ingenua. Il figlio di Lorenzo de’ Medici e di Clarice Orsini si trovò sin da bambino stretto tra due modelli di comportamento contrastanti e mutualmente alternativi. A Firenze era un cittadino come gli altri, che, nonostante il potere extralegale di cui godeva il padre, non doveva superare certi confini, mentre le stesse necessità politiche della famiglia esigevano che nelle relazioni col mondo esterno – dove i Medici erano ancora accusati di non essere che degli «ignobili mercanti» – Piero esibisse tutte le virtù aristocratiche più apprezzate in ambito principesco e cortigiano, tra cui appunto il suo talento sportivo (per così dire riallacciandosi al lignaggio della madre). Non era una condizione facile, perché i «modi» da rispettare in città gli avrebbero nuociuto dinnanzi agli altri potentati italiani, esattamente come certe maniere cavalleresche indispensabili a Roma o a Milano (come l’ostentazione di vesti appariscenti) non sarebbero mai state accettate dai suoi concittadini (che si attenevano a severe leggi suntuarie). Come nota Brown, sin da piccolo Piero fu educato a destreggiarsi tra questi imperativi opposti, ma ci sono chiari indizi che i suoi sforzi di tenere le due immagini nettamente separate si fecero col tempo sempre più ardui. Da questo punto di vista, le accuse di superficialità e di atteggiamenti tirannici non sarebbero che il segno della crescente impossibilità di nascondere la natura cripto-signorile del regime ereditato dal padre a mano a mano che Piero occupava un posto riconoscibile anche sulla scena pubblica italiana.
L’effetto di questo originale approccio è che i lettori sono costretti a valutare con molta più attenzione il peso delle circostanze esterne (e per così dire “oggettive”) nella caduta del reggimento mediceo. Come tra i cronisti del tempo aveva visto bene Pietro Parenti, Lorenzo aveva lasciato a Piero un potere non privo di crepe e gravato anzi da alcuni precisi elementi strutturali di debolezza, tra cui la sua stretta dipendenza dagli ottimati fiorentini: i quali, al momento decisivo, girarono senza rimpianti le spalle ai Medici per inseguire il proprio tornaconto personale. Tra i tanti modi in cui si può leggere il libro di Brown c’è dunque anche quello di scorgervi un’argomentata conferma delle riflessioni di Machiavelli sulla fragilità del «principato civile» mediceo: un colosso dai piedi d’argilla, incapace di resistere alla prima scossa seria dopo la morte di Lorenzo, perché troppo legato all’oligarchia, non abbastanza amato dal popolo e perennemente dipendente dalle «armi ausiliarie» del duca di Milano. Proprio come si legge nel capitolo IX del Principe.