Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 07 Domenica calendario

12QQAN40 Barbèra in visita ai tipografi degli States

12QQAN40

Prima di iniziare a leggere i suoi Ricordi tipografici di un viaggio agli Stati Uniti (1895), bisogna provare a immaginarselo, Piero Barbèra. Nulla a che vedere con un rentier indolente partito in viaggio per scommessa come il Phileas Fogg di Jules Verne. Fiorentino, trentottenne, scapolo, dall’età di sedici anni lavora nella stamperia fondata a Firenze dal padre Gaspero, e dalla morte di quest’ultimo, nel 1880, la dirige coi fratelli. Cresciuto respirando i vapori del piombo, Piero conosce il peso d’una cassa di carta, la resistenza d’un torchio e il puzzo dell’inchiostro da stampa. Tuttavia, grazie all’attività editoriale, ha stretto legami d’amicizia con la crème della società letteraria, a cominciare da Niccolò Tommaseo. Le collane «Gialla» e «Diamante» sono il vanto della sua ditta, insieme con l’edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, avviata nel 1890. La sua esistenza è talmente assorbita dal lavoro che all’inizio del 1892 sente il bisogno di un «intermezzo». Ed è così che, alla fine dell’inverno, riempiti due bauli d’abiti e pettinati i baffi umbertini, Piero salpa da Genova alla volta di New York. 
«Durante un’intera primavera – scrive nei suoi Ricordi - io volevo cessare di essere un tipografo per essere semplicemente e interamente un uomo: un uomo alla ricerca di sensazioni nuove, un sedentario desideroso di sgranchirsi un poco le gambe e di dimenticare più che fosse possibile ciò che lasciava in Europa». Proprio per tenere alla larga il pensiero del lavoro, Barbèra decide di cominciare il suo Grand Tour d’America dal Midwest, lontano dai grandi centri tipografici dell’Est. Ma giunto a Chicago per il giubileo colombiano, si imbatte in un magnifico... orario ferroviario! Ciò che più lo colpisce di quell’incantevole librino, è la carta geografica di cui è fornito: dettagliata, colorata e, soprattutto, stampata tipograficamente. Chi può essere in grado di fare una simile meraviglia? La risposta è in calce alla carta: Rand, McNally & Co.
Da inguaribile workaholic qual è, Barbèra decide subito di visitarne lo stabilimento e non appena è al suo interno, ricade fatalmente «nelle branche del demone tipografico». La tecnica di incisione dei flani, la produzione elettrica dei clichés, la stampa a grande formato, tutto lo incanta e tutto lo riporta col cuore alla sua benamata stamperia fiorentina.
D’un tratto il suo viaggio si trasforma in un corso d’aggiornamento itinerante. La prima tappa è Boston, dove si reca in pellegrinaggio nel luogo di nascita del «santo padre del giornalismo» Benjamin Franklin; passeggia nel campus della Harvard sbirciando nelle sale della sua biblioteca (che all’epoca possedeva appena un tredicesimo dei volumi oggi conservati alla Widener); s’intrattiene negli uffici della Houghton, Mifflin & Co. con Henry O. Houghton e «i letterati che lavorano per la casa» (chissà se strinse la mano dell’influentissimo editor Horace Scudder); e infine visita, guidato da George Mifflin, la modernissima Riverside Press donde escono in legature eleganti quanto indistruttibili i volumi del dizionario Webster. La tipografia che più impressiona Barbèra è tuttavia a New York.
Alla De Vinne Press, nel cuore di NoHo, si stampa infatti il prestigioso «Century Magazine», che Piero è solito sfogliare al Circolo filologico di Firenze. A fargli da cicerone, su e giù per gli otto piani del fabbricato, stipato di uomini, carta, piombo, è Theodor De Vinne in persona. Nella sua tipografia ogni macchina è all’avanguardia, ogni materiale è di prim’ordine e ogni operaio è motivato e soddisfatto. Compositori e compositrici, del resto, sono «pagati con la stessa tariffa». Figlio d’un pastore metodista e dunque self made man, è De Vinne a incarnare meglio di tutti quell’etica del lavoro che nel corso del suo viaggio Barbèra ha sentito pulsare nel sottosuolo americano.
Non è un caso se le pagine letterariamente più felici dei suoi deliziosi Ricordi, tratti dall’oblio dall’editore Ronzani, riguardino la De Vinne Press. Come quella in cui Piero descrive gli operai intenti a esaminare le lastre di rame ottenute con l’elettrotipia: «par che si balocchino con esse, le guardano da qui, le girano di là, le carezzano col palmo della mano, le fregano, le appannano col fiato, le guardano contro luce, le picchiettano a tergo con quei loro martelletti, come i medici ascoltano i malati sul cuore o sulla schiena, e non si decidono mai a metterne via una e passare a un’altra».