Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021
1QQAN40 Stampare in piena peste
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«Presi a scrivere le cose più notabili seguite in Venezia quest’anno 1576, nel quale vi ha sì fieramente regata la peste... la quale fulminando non si sa bene di dove uscita, assalì prima su le porte d’Italia la città di Trento, et havendola quasi disolata, trascorse poi a Verona... appresso allargatasi in altre parti, si aviò per fare più signalate prove verso di noi, e alla fine, passata come spirito invisibile di mezo alle guardie, che di continuo vigilando d’ogni intorno stavano per vietarli il passo, entrò in questa città, dove cominciò pian piano gir serpendo, et a ferire hor questo hor quell’altro, riempiendo il tutto di spavento, e di pericolo di morte». Che felice intuizione hanno avuto alla Marsilio nel dedicare la loro strenna annuale a La peste e la stampa, andando a frugare nelle carte venete di cinque secoli fa per ricavare una preziosa antologia di testi, che inevitabilmente si confrontano con quanto abbiamo appena vissuto e ancora viviamo con la pandemia attuale. E ancora più felice, l’intuizione, perché non propone scritti letterari, spesso già noti, ma testimonianze di vita vera, come quella appena citata, opera di un notaio veneziano, Rocco Benedetti, che nel contagio perse tre familiari e lasciò le sue considerazioni a un resoconto dimenticato, Novi avisi di Venetia, «nel quale si contengono tutti i casi miserabili che in quella, al tempo della peste sono occorsi». Un racconto eloquente, perfetto per gli scopi dichiarati nell’introduzione dalla curatrice Sabrina Minuzzi: «esplorare le ripercussioni sull’esistenza delle persone comuni delle decisioni istituzionali, della crisi socioeconomica e degli effetti culturali di una pandemia».
Con questo spirito l’antologia si muove fin dall’inizio, proponendo le delibere ufficiali della Serenissima, «pubblicate su foglio volante, in genere di grande formato, con l’impronto del leone di San Marco»: veste assai elegante per imposizioni così severe. Sono, in pratica, l’equivalente dei nostri Dpcm; e – pur conoscendo le elevate ambizioni del premier Giuseppe Conte – non immaginiamo che abbia mai pensato di trovarsi antologizzato in un libro che pubblicheranno verso l’anno 2500. Eppure è quello che accade in questo libro alle autorità venete, che si trovano a ratificare quello che oggi, con comprensibile dispiacere di Corrado Augias e di uno sparuto manipolo di puristi, chiamiamo lockdown. Il decreto del 3 agosto 1576 proprio di questo parla, «essendo stato deliberato di levare il commercio a tutte le contrade di questa città per xv giorni continovi, prohibendo sotto pena della vita, che alcuno non ardisca per detto tempo, non solo uscire della sua contrada, ma nanco entrare in casa alcuna di altre persone, fuori che nella sua, ancorché della detta contrada». Seguono misure, prevenzioni, dettagli vari.
Naturalmente non mancano conseguenze economiche; se oggi protestano soprattutto i commercianti, nel Cinquecento si lamentavano le prostitute. Quelle di Padova lo fanno in versi: «La maladetta peste/ ne fa morir di fame/ nostr’opere son di ragno/ e le pompose veste/ vendiam, misere e grame». D’accordo, non è il Tasso; ma il concetto è chiaro, come l’esortazione finale, di puro marketing: «Deh venite più presto/ non state tanto fuori/ che dolci son gli amori/ e quella libertade/ ch’in questa alma cittade/ voi godete contenti./Li sospetti son spenti, / né v’è più mal alcuno...». Insomma, negazioniste per necessità di cassa, e chissà se la promessa di piaceri proibiti avrà convinto chi invece scappava a gambe levate, come esorta a fare un sonetto anonimo: «Fuggi presto, lontano, e torna tardi/ E prega l’alto Dio, che te ne guardi». Sacro e profano, come sempre; tra i due poli, per chi ha avuto la peste in casa, le preoccupazioni concrete per i propri beni, sui quali incombe la minaccia del rogo. Per fortuna c’è l’alternativa di un’accurata disinfezione. Un altro foglio volante intestato, sempre con tanto di leone e capolettera, raccomanda i Modi et ordini che s’hanno da tener in sborar ogni sorte di robbe infette, et suspette, et facilmente, et sicuramente. Si fanno profumi, si pulisce con l’acqua e col sabbion: tutto pur di evitare le fiamme, che alla perdita di vite umane aggiungono quella delle robbe, particolarmente spiacevole in una città ricca di commerci come Venezia.
Anche sul fronte della reazione medica non mancano punti di contatto con l’attualità. Di vaccino non si parla, evidentemente; ma medicinali sono ben presenti in più di un ricettario: il libro si sofferma su quello di Marietta Colochi, rarissimo esempio di «una delle molte figure femminili che praticarono la medicina rimanendo tuttavia nell’ombra». In verità, più che una ricetta medica, pare culinaria: per mondificar un carbon si prendono «un rosso di ovo, zaffaran, oglio rosado, zuccaro candido, e fa un impiastro sbattudo insieme, & metti sopra». Il Gadda amante del risotto avrebbe sicuramente apprezzato. Mentre quelli che perorano la causa del passaporto sanitario possono ritrovare qui un antenato: si chiamava fede di sanità, «peculiarità tutta italiana, spiega la curatrice sconosciuta al resto d’Europa», un foglio di carta da integrare a mano con i dati di chi lo portava con sé. Per questo è considerato un antesignano del documento di identità.
Tutto questo capitava nel 1576. Per fortuna, o chissà, per le misure di contenimento, già l’anno successivo la scomodissima visitatrice levava le tende. E quindi il libro si conclude festosamente con i modesti versi di Giorgio Colonna, tratti dalla Canzone sopra la città di Venetia liberata da la peste: «Ecco le strade d’ogni intorno aperte/che chiuse fur nel periglioso stato...» e così via. Leggeremo anche noi quest’anno qualcosa di analogo sulla liberazione dal Covid? Nell’attesa, godiamoci questa strenna della Marsilio anche come omaggio alla memoria di Cesare De Michelis, che vent’anni fa aveva ideato la collana Albrizziana, Documenti per la storia dell’editoria a Venezia, diretta da Mario Infelise, di cui giustamente il libro fa parte.