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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

235QQAN40 Viaggio tra calligrafi, guerrieri, maestri di tè

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«Trovare il modo di stare bene in ogni momento è chan» (zen in giapponese), così dichiara, senza alcuna profetica enfasi, il maestro Dejian: lo ricorda Monica Dematté in uno dei diciannove racconti del suo affascinante Cineserie. Storie vere di maestri del tè, monaci guerrieri, calligrafi, giramondo e altri ancora, pubblicato da Enciclopedia delle donne. E a proposito del maestro aggiunge: «Il suo parlare è semplice, piano, non c’è nulla di complicato. Si percepisce che quello... che sa l’ha sperimentato di persona, tutto». L’affermazione, riferita all’abate guerriero e guaritore di un monastero remoto, per nulla modaiolo, vale benissimo anche per l’autrice, come traspare dalle sue pagine intense e colloquiali al tempo stesso. Quella dell’esperienza diretta di quanto si conosce e si afferma è una dimensione niente affatto comune, che per di più ha tratto origine per Dematté in un sogno, anzi meglio in una folgorazione – come spesso è accaduto ai ricercatori autentici di ogni tempo e Paese, celeberrimi o ignoti. Lo racconta lei stessa nella premessa al suo libro, dedicata “A una Cina che non c’è più”: nel leggere le frasi di Ernst H. Gombrich riferite all’«assenza» e al «vuoto» nell’estetica e nella pittura cinese, la giovane ventitreenne rimane fulminata. La sua vita cambia, avidamente si mette a cercare tutto quello che può avvicinarla «a quel vuoto che mi sembrava fondante e affine»: libri che parlano della cultura cinese antica, un breve corso di lingua all’Università di Bologna, infine (o meglio al principio) «pazza di entusiasmo e di curiosità» un biglietto di sola andata per la Cina nel settembre del 1986. 
Cercava il «vuoto», trova un universo densissimo di disparata umanità, «un popolo curioso e amichevole, umano e indisciplinato, chiassoso, ridente, generoso, ospitale, semplice... artisti, liberi e poveri, tiratardi, fumatori accaniti, sempre pronti a levare il bicchiere colmo di liquore». E lei prontissima certo a degustazioni raffinate di tè rari, ma soprattutto a partenze verso mete lontane, spesso impervie anche per le altitudini, o sconosciute salvo nei bagliori dell’intuizione, con compagni di viaggio e avventura diversi, con vettovaglie arrischiate, ma offerte di tutto cuore da ospiti semplici, con veicoli improbabili: prediletti i treni, si parla delle ferrovie cinesi di 35 anni or sono! Non disdegnate le auto coeve. Unica esclusione, tassativa: le mete, o meglio gli ambienti turisticamente imbastarditi e pompati per essere trasformati dall’occhiuta cecità dei governanti in permanenti luna park, macchine da soldi dove resse di visitatori inebetiti si accalcano. Al punto che la nostra viaggiatrice rinuncia alla visione diretta della famosa Montagna Gialla, «quintessenza dell’idea cinese tradizionale di “montagna”», ma ormai non più «vera» per la volgare ostentazione della sua bellezza; così Dematté riferisce la sua decisione, secca e appassionata a un tempo: «Ho deciso: la Montagna Gialla rimarrà per me... un luogo affidato alle infinite risorse dell’immaginazione».
E una scelta ancora più radicale la aspetta: gli anni sono passati, parte in Italia parte in Cina, la viaggiatrice è diventata una «critica d’arte e curatrice affermata», mentre il contesto artistico genuino di un tempo al principio del Duemila vira precipitosamente verso mercati, vendite e aste, successo e soldi. Monica non ha esitazioni, si rimette in cammino nella direzione opposta a questa, per «cercare poetiche più autentiche e artisti ancora sinceri da sostenere»: prosegue la sua attività innamorata dell’utopia «di un’arte libera dal denaro». 
Il volume è arricchito da immagini originali che fanno capolino dentro aperture ispirate ai giardini cinesi, rifacimenti ricchi e teatrali della natura vera, da mappe e dalla Postfazione di Gian Carlo Calza, alla quale lascio le eleganti riflessioni sul titolo Cineserie, la spiegazione della struttura del libro e, soprattutto, una considerazione finale che mi sento di condividere senza riserve. Contiene ai miei occhi la risposta a un interrogativo tacito, lasciato in sospeso: e il Vuoto? Dov’è “finito” il Vuoto che ha attratto irresistibilmente l’autrice e che solo all’apparenza è stato colmato da una folla di personaggi, ambienti sociali, elementi naturali. Al termine dell’itinerario propostogli, il lettore si rende conto che il Vuoto è sempre stato lì: vuoto di preconcetti, pregiudizi, routine, successi, brame personali. Proprio il Vuoto senza nome è Ciò che ha permesso a Dematté la fresca presenza in ogni incontro e circostanza, e l’itinerario lungo la via, «quasi invisibile» perché non è tracciata prima (o forse lo è solo in Cielo), «dove si conquista, mai in modo definitivo e certo, il proprio essere umani».