Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2021
QQAN20 Tutte le forme del mandarino
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Chi, cresciuto in una lingua alfabetica, si ritrovi a studiare il cinese, ovvero il mandarino, la lingua nazionale più importante della Cina, assai presto scopre che lì nessun legame di necessità collega suono, segno e senso. Il mandarino è scritto non in un sistema di lettere che corrispondano a una data fonetica, ma in caratteri pittografici o ideogrammatici, composti di vari tratti (che arrivano, in casi estremi, anche a parecchie decine), alla pronuncia e al significato dei quali occorre essere iniziati attraverso una rigorosa preparazione. Senti una parola e non puoi immaginare come sia scritta, se non l’hai già studiata. La vedi scritta e non puoi immaginare né come si debba dire né che cosa voglia dire, se – di nuovo – non l’hai già studiata.
E anche se l’hai studiata, non è certo che tu, ritrovandola in un libro, la riconosca a colpo sicuro. La memorizzazione dei caratteri, infatti, è un processo lento, e se pure ti sembrava finita, potresti all’improvviso accorgerti che non lo era. Richiede assiduità e disciplina sempre rinnovate. I caratteri sono un mare. Il dizionario più completo del mandarino, intitolato appunto Mare dei caratteri cinesi (1994), ne conta 85.500. La persona di media istruzione ne conosce più o meno 2mila. Non sono pochi neppure così pochi. Negli anni in cui io studiavo il mandarino, passavo almeno due ore al giorno a tracciare e ritracciare una manciata di caratteri. È quello che fanno i bambini cinesi alla scuola elementare, dalla mattina alla sera. Osservi il carattere per un minuto o due, ne afferri la struttura, assorbi la disposizione dei tratti, e poi cerchi di riprodurlo sul tuo quadernino, facendolo stare nel suo invisibile riquadro. Inevitabilmente torni ogni tanto all’originale stampato per rassicurarti sulla correttezza di quel che stai mettendo sul foglio. Affinché la memorizzazione riesca più agevole e si fissi in un’immagine quanto più sicura possibile occorre che ciascun tratto sia scritto puntualmente nello stesso ordine.
E poi ci sono i famosi toni. Il mandarino ne conosce quattro (ma in altre varianti di cinese, come quella di Hong Kong, se ne hanno di più). Ogni parola ha un suo tono prefissato. I toni, ovviamente, esistono anche nell’italiano e nelle altre lingue europee. Qui, però, indicano uno stato d’animo, un’emozione. In mandarino determinano la semantica della parola. Prendiamo un esempio molto diffuso, da cui partono tutte le grammatiche: la sillaba “ma”. Il caso vuole che questa sillaba sia pronunciabile in tutti e quattro i toni, per ciascuno assumendo un significato diverso: “madre”, “canapa”, “cavallo”, “rimproverare” (a ogni significato corrisponde, va da sé, un carattere proprio). Esiste anche un “ma” privo di tono, che serve a concludere le interrogative dirette. Se per un italiano gli errori di pronuncia sono facilissimi, specie all’inizio, non bisogna credere che per cinesi la comunicazione non sia priva di ambiguità e di tranelli. Il punto è questo: che la lingua cinese conosce un numero alquanto limitato di sillabe, che da sole non creano un vocabolario sufficientemente ampio. I toni sono intervenuti ad ampliare la capacità semantica della lingua.
Su questi e altri aspetti del mandarino si sofferma il simpatico saggio della sinologa tedesca Thekla Chabbi I segni del drago. La Cina nei misteri di una lingua millenaria, tradotto da Lorenzo Lilli. Si comincia dall’antichità più remota, quando i caratteri erano incisi su magici ossi d’animali, e si arriva via via ai nostri giorni. Perfino il Covid è nominato. Alla descrizione del pinyin - il sistema di traslitterazione in lettere latine, inventato da Zhou Youguang, ex uomo di banca, e introdotto nel 1958 – segue un ragguaglio degli aspetti grammaticali e lessicali più salienti (la forma dei caratteri, le etimologie visuali, i giochi di parola, l’ordine sintattico) e di certe curiose differenze rispetto alle lingue europee (come l’assenza del “sì” e del “no” nelle risposte, o del futuro e del passato nell’utilizzo del verbo). Chabbi fornisce anche illuminanti cenni sull’estetica del mandarino e ragguagli sulla cultura cinese, mostrando interferenze tra lingua e cucina, per esempio, e insegnando che la lingua ha rappresentato e continua a rappresentare la forma più alta di coesione nazionale in Cina, dove fortissime divisioni interne impediscono al popolo di sentirsi parte di un unico Stato.
Ne esce alla fine un vivace discorso critico, dove l’amore e il rispetto per la varietà e per l’originalità della tradizione cinese si alternano ad aperti attacchi all’autocrazia, alla repressione politica e alla mancanza di informazione, sebbene Chabbi abbia sempre per obiettivo la spiegazione della complessità e della diversità. La lingua entra in scena come protagonista eroica, che, limitata, censurata, travisata dalla propaganda di partito, trova nella sua stessa sostanza figurativa i mezzi per riformulare e per diffondere proteste di libertà e denunce contro i soprusi del regime, aggirando, finché ci riesce, i divieti. Non manca il ricordo dei dissidenti, che hanno pagato anche con la vita – dai giovani di Tienanmen, ormai cancellati dalla coscienza collettiva, a Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace nel 2010, al costituzionalista Xu Zhangrun, il cui articolo Quando la furia supera la paura, uscito il 4 febbraio 2020 (lo trovate in traduzione inglese all’indirizzo https://www.chinafile.com/reporting-opinion/viewpoint/viral-alarm-when-fury-overcomes-fear), rimprovera il governo di aver favorito la diffusione del Covid. A proposito di Xu, Chabbi commenta, con la sua solita passione per i messaggi trasversali: «non cita il nome del presidente cinese [Xi Jinping], ma trova numerose metafore che non lasciano dubbi sulla sua identità. Molte metafore si riferiscono a tiranni e modi di agire tirannici nella storia cinese. (…) Citando il proverbio “Vietare alle persone di parlare è più pericoloso che sbarrare un fiume” si riferisce al destino di un re del IX secolo a.C. Quando il popolo non sopportò più la tirannia del sovrano, finì per assaltare il palazzo reale...».