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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

12QQAFZ10 A tu per tu con Jessica Powell

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Crescere. Diventare sempre più grandi. Battere ogni record. Superare sé stessi e tutti gli altri. È la cultura delle grandi società della tecnologia americana e di tutte le aziende che vogliono seguirne le orme. Una cultura nella quale si dà per scontato che questa corsa inarrestabile serva a cambiare il mondo e, dunque, a migliorare il mondo. Una identificazione – tra tecnologia, cambiamento e miglioramento – che nel microcosmo di Silicon Valley sembra più ovvia di quanto non si cominci ormai a pensare altrove.
Nella valle delle startup giganti, l’imperativo nel gergo locale è “scalare”. Non è tanto un’ossessione. È un preconcetto. Uno stato d’animo. Forse è un desiderio generato da una psicologia non troppo matura che ha bisogno di conferme continue. È, banalmente, una richiesta della finanza. Quasi certamente è un sistema di potere che punta a perpetuarsi. Oppure è una sorta di mito fondativo per una cultura proiettata verso il futuro. Più probabilmente è tutte queste cose insieme. Qualunque sia la spiegazione, l’ethos di Silicon Valley ha assorbito la vita di Jessica Powell con la sua monocorde concezione quantitativa della crescita: «Il fatturato, il valore di borsa, il numero di utenti, tutto deve registrare un’espansione. E tutto è progettato di conseguenza».
Jessica Powell si è trovata immersa in questa comunità guidata da ingegneri, peraltro prevalentemente bianchi e maschi, che dedicano la loro gioventù alla scalabilità illimitata dei loro business. Powell ha lavorato per Google arrivando al ruolo di responsabile della comunicazione. Era nella stanza dei bottoni. Ma è sempre restata un’estranea in quella immensa casa. Quando ne è uscita ha sciolto la tensione con una bella risata: e ha deciso di scrivere ciò che ha imparato in un romanzo satirico che dichiara di raccontare fatti totalmente inventati, avvertendo però che quei fatti contengono l’essenza della verità. Per tutti coloro che sono affascinati dalla forza delle aziende di Silicon Valley o che temono la loro potenza inarrestabile, il romanzo di Jessica Powell, “The Big Disruption”, si rivela una lettura divertente e istruttiva. Persino qualcosa di più. E la traduzione italiana in uscita per Campanotto rilancia la curiosità di chi vuole vedere come va a finire.
Intendiamoci. Avendo studiato a Stanford, Powell si era messa in una traiettoria naturalmente convergente col mondo di Silicon Valley che proprio da quell’università attinge una gran parte dei suoi talenti. Ma lei non ci pensava. «Non credevo ai pregiudizi che mi sussurravano all’orecchio i miei compagni, convinti che scrivere “codice” non sia roba da femmine. Sta di fatto che non ero molto interessata a quella materia». In effetti, la svolta per il suo piano di studi a Stanford sarebbe avvenuta nel corso di un piacevole evento a base di vino, formaggio e letterature comparate. «A quel tempo, non conoscevo nessuna lingua straniera» racconta Powell. «Ma il racconto delle diverse culture attraverso le rispettive arti della scrittura mi cambiò la prospettiva. E così sono partita per scoprire il mondo. In Spagna. In Portogallo. In Francia...». Viaggi che le avrebbero rivelato, tra l’altro, una personale facilità di apprendimento delle lingue. Tanto che per un po’ si sarebbe mantenuta come traduttrice. Esperienza importante: «Ha ragione» risponde Powell «non molti lo sottolineano. Quel mestiere non risponde tanto al bisogno di trasferire delle parole da una lingua all’altra: piuttosto serve a mettere in comunicazione persone che vedono il mondo in modo diverso, che hanno mentalità e culture molto differenti». È un ruolo che, facendo un salto di astrazione, Powell si è trovata a giocare anche quando ha dovuto mettere in relazione la cultura delle aziende tecnologiche, come Baidu e Google, con quelle del resto del mondo. Non prima, però, di aver sperimentato altre professioni. Compreso un significativo paio d’anni come responsabile comunicazioni alla Cisac, la confederazione internazionale delle Società degli autori e compositori, insomma chi difende il copyright.
Esperienze professionalmente diverse. Molto diverse. Che l’hanno resa, culturalmente, un’aliena nella tribù googlesca. Non per nulla alla fine Jessica Powell non ha resistito a porsi delle domande. Che cosa motiva l’insaziabile espansione delle grandi aziende tecnologiche? Perché c’è una tale distanza tra ciò che appare e ciò che è l’innovazione tecnologica? Da dove vengono le idee che i giganti digitali realizzano con le loro enormi capacità ingegneristiche? Quali ne sono gli effetti: distruggono o costruiscono? 
L’ultima domanda è la più facile. L’ambiguità del possibile è sintetizzata in quel concetto di “disruption” che si trova nel titolo in inglese. È una parola che allude a un passaggio da uno stato di cose a un altro, un’interruzione del corso della storia seguita da una grande novità, la messa in discussione di un potere per costruirne un altro. Ricorda il concetto di distruzione creativa del maestro di economia dell’innovazione, Joseph Schumpeter: si elimina il vecchio per costruire il nuovo. Portando il libro in Italia, i traduttori hanno preferito sciogliere l’ambiguità scegliendo per il titolo: “La grande distruzione”. Il che la dice lunga sull’atteggiamento italiano nei confronti dell’innovazione.
Le altre domande sono più complesse. Che cosa motiva il desiderio di crescita infinita? «Non credo che i manager di Facebook, Google, Apple, Uber o Amazon si sveglino ogni mattina cercando nuovi modi per rubare i dati agli utenti o creare nuovi disoccupati» sostiene Powell. «Piuttosto penso che siano disperatamente desiderosi di restare al vertice e non essere relegati in un angolo polveroso del Museo della Storia del Computer». Non è facile resistere al vertice, come ha detto a suo tempo lo stesso Bill Gates quando era leader della Microsoft e la sua azienda era al centro dell’industria: «Nessuna società che è stata al vertice in un periodo della storia dell’informatica lo è rimasta nel periodo successivo». Ma chi entri nella storia raccontata da Powell, nella quale i dominatori assomigliano tanto a Google e Facebook, si domanda: che cosa manderà i giganti di oggi in quel famoso Museo? Da dove verranno le idee del futuro? Saranno una nuova iterazione della logica di Silicon Valley? O la prossima volta sarà diverso? 
La risposta è prima di tutto nelle dinamiche attuali, con i loro pregi e difetti. E già parlare dei difetti è una novità. «Ho scritto questo libro» dice Powell «perché dovremmo essere capaci di celebrare i prodotti che costruiamo, ma senza ignorare i problemi che generano». E invece a Silicon Valley si tende proprio a ignorare quei problemi. A rimandare sempre il momento in cui si affrontano. Perché una sorta di pensiero unico prevale. Powell menziona il discorso di un leader aziendale che ricorda tanto il fondatore di Airbnb che presentava la sua azienda non come una piattaforma per affittacamere, ma come una forza per la pace nel mondo: perché se le persone dormono insieme, le diverse culture si comprendono meglio e i popoli si fanno meno guerre. Una sorta di pregiudizio copre ogni problema: la prossima versione sarà migliore della precedente. E questo grazie agli ingegneri. «Gli ingegneri vogliono cambiare il mondo» racconta Powell «e sono al vertice del potere a Silicon Valley». Evidentemente pensano che migliorando le tecnologie faranno il bene della società. «Ma le loro idee vengono da un contesto autoreferenziale. Se hai intorno solo gente che ha studiato a Stanford, che appartiene alla classe ricca, che ha la pelle bianca e prevalentemente è di sesso maschile, la tua capacità di comprendere le conseguenze di quello che fai è molto limitata». E quindi le conseguenze sono inattese. E spesso peggiori di quello che si poteva immaginare. «A un certo punto Lift ha introdotto una novità. Ti facevano entrare dalla porta anteriore. Una cosa intesa a migliorare la socialità. Si doveva stare accanto all’uomo che guidava. Per una donna poteva essere spiacevole. In effetti, non c’era una donna nel marketing di Lift».
Nella satira di Powell, una società di ingegneri totalmente priva di comprensione per le emozioni e la qualità dei rapporti umani tenta di programmare un’app che possa migliorare le chance dei “nerd” di piacere alle ragazze. Inutile dire che la prima versione è un disastro per la produttività degli ingegneri che si lasciano irretire in una fitta conversazione amorosa. Di versione in versione, i progettisti trasformeranno l’applicazione in un sistema che garantisce un equilibrio tra la produttività degli ingegneri e la loro capacità di trovare soddisfazioni emotive meno dirompenti e più strumentali dell’amore. Gli ingegneri tentano di costruire un’utopia, ma riescono solo a realizzare una fabbrica di software più efficiente e un’azienda più potente. E senza scrupoli. Pronta a crescere ancora di più.
A allora? che cosa ci sarà dopo? Il libro non risponde. Ma forse nella biografia di Powell qualche idea in più viene in mente. Perché lei dopo aver lavorato per i giganti più potenti del pianeta è tornata a fare una startup, al servizio dei musicisti. E che cos’ha di speciale? Intervistandola si scopre una differenza notevole. «Non vogliamo crescere» racconta Powell, co-fondatrice di Audioshake. «La nostra azienda è diversa. Vogliamo una cosa piccola. Che aiuti davvero i musicisti, uno per uno. Voglio conoscere tutte le persone che lavorano con noi. Voglio pensare alle esigenze delle donne da subito. Non come aggiustamento successivo. Voglio assumere persone diverse fin dall’inizio, altrimenti dopo è difficile cambiare direzione. Il valore della piccola dimensione è da rivalutare». Diventerà un nuovo paradigma? «La finanza ha un enorme potere. Sono scettica. Ma mi piace pensare che si possa arrivare a un nuovo equilibrio. Dall’Europa si può imparare. Non tanto a fare tecnologia. Ma a costruire culture aziendali più sobrie. Non per niente, l’idea del libro è nata in Europa». Dopo che per secoli l’Europa ha fatto di tutto per distruggere il mondo e sé stessa, oggi è arrivata a costruire un’immagine di saggezza. Nella speranza che possa andare oltre l’immagine.