Huffington Post, 7 febbraio 2021
Intervista a Marco Belpoliti
Sulla copertina dell’ultimo libro di Marco Belpoliti, Pianura(Einaudi), c’è una foto di Luigi Ghirri che si chiama Edicola con nebbia ed è tutta bianca. Oltre alla nebbia non c’è quasi nient’altro. Eppure si può rimanere a guardarla a lungo senza sapere bene cosa si sta guardando, né perché: «La nebbia – dice Belpoliti – consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile».
Da anni Marco Belpoliti scrive saggi sulla letteratura, sulla storia e anche sulla politica trascinando nei campi disciplinati delle materie di studio degli oggetti che sovvertono le regole consolidate dell’indagine, com’è stato per la sessualità nell’interpretazione letteraria di Pasolini, Andy Warhol per l’estetica delle Brigate Rosse, la canottiera nella fenomenologia di Umberto Bossi. Stavolta, Belpoliti sovverte il genere dell’autobiografia, scrivendone una in cui il protagonista non è lui, il suo io, ma è il luogo in cui è nato e cresciuto, la Pianura Padana, che racconta attraverso le storie dei talenti che lì sono germogliati e che spesso conosce da molto vicino (Gianni Celati, il già citato Ghirri, Giovanni Lindo Ferretti, Pier Vittorio Tondelli, Antonio Delfini e altri ancora), le meditazioni che gli suggeriscono i posti che riscopre durante il viaggio e i disegni, tutti di suo pugno, che completano il testo.
«Quando cala la nebbia – dice Belpoliti – tutto cambia. Tutto diventa misterioso e tutto, allo stesso tempo, diventa una scoperta». La nebbia è una presenza costante della Pianura Padana e secondo Belpoliti è un velo che non nasconde il mondo, ma lo rivela.
Meglio di come faccia la trasparenza?
«Il mito della trasparenza è il mito della tecnologia contemporanea. Noi crediamo di vedere ogni cosa, perché sul web tutto è diventato facilmente consultabile e accessibile. In realtà, dietro quello che si vede c’è un mondo nascosto in cui siedono i signori di Google, Facebook, Instagram, Twitter, che sono persone che si sono impadronite di un potere che nessuno gli ha dato, così come i tiranni delle città greche si impadronivano della democrazia con metodi tutt’altro che democratici».
Sta dicendo che la trasparenza è un nascondiglio per chi ha il nuovo potere?
«Quel che voglio dire è che il mito della trasparenza è un falso mito. Poiché non c’è niente al mondo che possa sfuggire all’opacità, neanche le esperienze umane più intense come l’amore, l’amicizia, la maternità, la paternità. Mai saprò davvero cosa c’è nella testa di un’altra persona, anche nella testa della persona che amo. Come si può credere di conoscere il mondo così com’è con un clic?».
Perché lei è così affascinato dalla Pianura, una superficie che rimanda alla superficie di tutte le altre cose?
«La superficie è l’unica cosa del mondo che sperimentiamo veramente, l’unica cosa che conosciamo davvero con i nostri sensi, con lo sguardo, con il tatto, con il gusto. La superficie non è una metafora: è la realtà delle cose, è tutto ciò con cui entriamo in contatto, è la materia di cui è fatto il mondo. Da molto tempo, grazie anche alle Lezioni americane di Italo Calvino, mi sono lasciato alle spalle il mito della profondità. Poiché per conoscere il mondo non c’è bisogno di scavare un buco nella terra. Bisogna camminare. La profondità è una metafora, non è qualcosa che vediamo, che viviamo. È un mito creato dai romantici. Non è un mio problema».
Lei cita questa frase di Calvino: “Giorni di catastrofe sono tutti i giorni in cui non succede nulla”. Oggi sta succedendo di tutto, ma per fortuna niente di catastrofico?
«Calvino è uno scrittore che ama i paradossi e dal quale ho imparato la dialettica, non quella hegeliana, ma è la dialettica che insegna che ogni cosa può trasformarsi nel suo contrario. Cosa vuol dire, allora, quella frase di Calvino? Vuol dire, secondo me, che ci son giorni in cui desideriamo che accada qualcosa nella nostra vita: una telefonata, un incontro, una lettera, un pensiero, un’idea, qualcosa che ci scuota. Se non accade: ecco la catastrofe. Quelli di oggi sono giorni in cui muoiono centinaia di persone al giorno eppure mi affaccio alla finestra, qui nella mia casa di Milano, e fuori non vedo niente. Questo stordisce. Siamo abituati al pazzo che scende in strada e spara nel mucchio. Siamo abituati alle stragi. Non siamo abituati a temere l’invisibile».
Sa che quando ho detto “sta succedendo di tutto” pensavo anche alla crisi di governo?
«Ma quello è il risultato di una catastrofe già avvenuta, non si tratta propriamente di una catastrofe, che, etimologicamente, è sempre un punto di rottura: si tratta di un disastro, che è qualcosa di molto più vasto di una catastrofe. Il disastro nel Paese è enorme ed è difficile immaginare chi ci risolleverà».
Quando ha smesso di studiare geologia?
«Non lo ricordo con precisione, però posso dirle che continuo a leggerla. La geologia è la storia della terra ben prima che fosse abitata dall’uomo. È un sapere affascinante, anche perché in esso noi uomini depositiamo anche i nostri rimossi».
Per esempio?
«I dinosauri: sono degli animali feroci, però che non possono più farci del male, essendosi estinti da molto tempo. Il dinosauro è l’incongruo, lo strano, il pericoloso, l’alieno. Spesso, nelle storie che si raccontano al cinema, nei cartoni animati, cercano di salvarsi la pelle. C’è la terra arida. Non trovano più cibo. La catastrofe ambientale incombe su di loro. Come su di noi oggi».
Lei ha scritto il primo articolo sui CCCP?
«Non lo sapevo. L’ho scoperto quando Umberto Negri ha scritto un libro sulla storia del gruppo e leggendolo ho ritrovato un mio vecchio articolo per il Manifesto».
Ero convinto fosse stato Pier Vittorio Tondelli a scriverne per primo.
«Ero convinto anche io, ma ho controllato: la data del mio articolo è precedente. Non mi sorprende: sono amico di Giovanni Lindo Ferretti da quando ha sedici anni. Ho sempre pensato che avrebbe fatto qualcosa nella vita. Non capivo però cosa. Non riuscivo a immaginare come si sarebbe potuto esprimere. In quale forma. Scriveva, questo lo sapevo. Non immaginavo che avrebbe fatto dei dischi. Cantato delle canzoni. Invece, quando ha incontrato la musica è diventato chiaro che quella era la sua strada».
Anche lei era un punkettone?
«Vuole scherzare?».
Le sembra così scandaloso?
«Non c’è bisogno di essere stato un punk per apprezzare la musica degli amici che hanno fatto i CCCP. E poi Ferretti era un punkettone?».
Lui dice di sì.
«Sì, ma Ferretti è innanzitutto Ferretti: è stato filosovietico, poi è diventato ratzingeriano, ora ha simpatie meloniane, eppure resta essenzialmente Giovanni Lindo Ferretti. Non condivido le sue idee politiche attuali, però lo considero un uomo fortunato».
Perché?
«Perché è sempre riuscito a dire quello che voleva dire».
E lei ci è riuscito?
«Non lo so».
Non lo sa?
«Lavoro sperando che qualcosa del mio lavoro rimanga».
Il successo le interessa?
«Questa è una domanda sbagliata».
Perché?
«Perché non ci si può interessare al successo. Semmai, è il successo che si può interessare a te».