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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

Gli Usa visti da Moravia

«Gli Stati Uniti, pur sotto le apparenze di un Paese superorganizzato... si dovrebbero paragonare a un vulcano ancora attivo, nel quale, sotto la vegetazione lussureggiante che ricopre il fondo del cratere, si nasconde, ancora ardente e fluido, un magma etnico e sociale sempre pronto a esplodere». Non sono le parole di un corrispondente da Washington, scritte poche settimane fa; sono invece di Alberto Moravia e risalgono al 1968. Dai suoi viaggi negli Usa lo scrittore romano trasse articoli ed elzeviri per diverse testate – da La Gazzetta del Popolo e Omnibus negli anni trenta, al Corriere della Sera e L’Espresso negli anni cinquanta e sessanta. Una nutrita serie di questi scritti ci viene riproposta nel volume L’America degli estremi, a cura di Alessandra Grandelis (Bompiani, pagg. 380, euro 22). 
Il primo viaggio dello scrittore negli Stati Uniti risale all’autunno 1935, in pieno New deal, su invito di Giuseppe Prezzolini, direttore della Casa italiana alla Columbia University. Il fondatore della Voce fu colpito dall’acume del giovane scrittore e annotò nel suo Diario: «Ha capito subito cose che quelli che arrivan dall’Italia metton anni a intendere... con tutto ciò la vita americana non lo abbaglia e non lo attira». Nel confronto con la nuova realtà, Moravia si mette in gioco fin dall’inizio in prima persona, osservando gli Stati Uniti senza censure, ma a un tempo senza chiusure e con una certa autoironia (in alcuni brani crea un alter ego che chiama «il signor X»). Fin dal primo viaggio Moravia è colpito dalla tendenza all’uniformità e alla massificazione dell’ american way of life. La società americana, benché formata essenzialmente da immigrati, molti arrivati da pochi anni o decenni, ha risucchiato le loro tradizioni e le diversità culturali d’origine, magnetizzandoli e inglobandoli in un inarrestabile processo di produzione finalizzato al successo individuale, all’arricchimento e al consumo uniforme e mai sazio delle medesime merci (Tantalo e Re Mida sono qui i richiami mitologici dello scrittore). La vita americana gli si rivela scissa da quella europea: culturalmente differente nei suoi pilastri costitutivi, come nelle vibrazioni iperattive di un’energia posta su tutt’altro piano. Se l’Europa trasfonde a ogni stilla il retaggio del suo passato culturale, l’America è protesa al futuro, un vasto cantiere dove convivono gli immensi territori selvaggi colonizzati e le megalopoli spettacolari e al di fuori della misura umana.
Moravia descrive New York trasfigurandola come la moderna Babilonia: «Oltre che per quelle sue torri che salgono a terrazze come quelle di Nabucodonosor, oltre che per un maledetto disordine per cui si cercherebbe invano nella sua pianta un’idea chiara e significativa, un centro irradiatore, un’unità qualsiasi, soprattutto per la sua natura di bazar cosmopolita lontano da ogni idea di durata». Gli articoli degli anni cinquanta e sessanta ritraggono un Paese che amplia ed enfatizza queste contraddizioni, tra una produzione esuberante di nuove tecnologie, solida per la diffusa efficienza e un“’sistema uomo” dai contrasti sempre più marcati. In un’esistenza dove l’individuo è parte integrante della classe media diffusa, che consuma e macina percorsi conformisticamente analoghi, l’originalità è infatti osteggiata e la solitudine e il dolore non sono accettati. Da qui la sempre più diffusa pratica della psicanalisi, spesso richiesta per la soluzione di spiccioli dispiaceri quotidiani.A fine anni sessanta, una duplice svolta: da un lato, l’esplosione delle tensioni sociali con la rivolta studentesca – collegata alla controcultura hippie e alla protesta contro la guerra in Vietnam – e di quelle razziali, con la rivolta degli americani di colore che rivendicavano i loro diritti. In contemporanea, l’orgoglio tecnologico del primo allunaggio di un essere umano, nel luglio 1969: passo iniziale verso un’inebriante e audacissima nuova frontiera.