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Intervista a ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte)
Come la principessa di Frozen, vogliono dissolvere il gelo, il duro inverno causato dal Covid che ha chiuso i teatri e congelato il lavoro di artisti e tecnici. «Il nostro festival sarà una grande festa per celebrare il teatro»: Stefano Ricci e Gianni Forte, ovvero ricci/forte (minuscolo perscelta) sfoggiano barbetta, occhiali, testa rasata entrambi. Molto millennial nerd, anche nel rivendicare la propria indipendenza di registi e autori sia dal teatro ufficiale che dalla sperimentazione, ora sono approdati alla testa della Biennale Teatro di Venezia con la stessa autorevolezza di cui hanno dato prova dal 2006 nei loro spettacoli, Troia’s discount, Macadamia Nut Brittle, Grimless, Still life, 100% furioso...
Successi internazionali, storie ribollenti, riflessioni ardite sul vivere, tra Artaud e Paperino, Eschilo e WhatsApp, che sfondano le ben stabilite barriere di genere.
E da direttori, per la prima volta in un incarico ufficiale, stanno organizzando il festival dal 2 all’11 luglio, come "una festa" tenera e aggressiva, ironica e trasgressiva fin dalla scelta dei Leoni, assegnati a due realtà importanti della scena contemporanea: l’oro alla carriera a Krzysztof Warlikowski, 58enne regista polacco che ha lavorato sull’interazione cinema — teatro, e d’argento alla 36enne Kae Tempest, performer inglese, irruente protagonista della spoken word poetry che ha scelto un’identità plurale e chiede di rivolgersi a lei con il "loro".
«Abbiamo pensato i 4 anni della nostra direzione come una tetralogia — spiegano ricci/forte — un unico grande progetto in quattro capitoli, ogni anno un tema, legato a un colore: blu, rosso, verde per chiudere col bianco e nero».
Perché il blu è il colore di quest’anno?
Forte: «Blu come il congelamento, la solitudine, la malinconia causata dal Covid, ma anche come il cielo, il mare, dunque con una doppia valenza. Ci sembrava giusto per la ripartenza del teatro, e infatti sarà il colore dell’installazione scultorea che accoglierà il pubblico».
Una vostra creazione?
Ricci: «Non abbiamo l’ansia di far vedere cose nostre, come fanno i direttori di certi teatri. Sarà semplicemente il nostro marchio, diverso di anno in anno. Questa edizione l’installazione sarà un labirinto per uno spettatore a volta, che seguirà il percorso dove risuonerà la voce degli anziani: testimonianze raccolte dagli studenti veneziani tra nonni, zii, parenti, storie di come hanno vissuto i mesi di isolamento. Il pubblico non sarà obbligato a percorrerlo, ma se decide di partecipare avrà uno sguardo più lucido sul resto della manifestazione».
E perché?
Ricci: «Sia il college, la sezione didattica per giovani artisti, che il festival vero e proprio saranno dedicati ai maestri».
Forte: «Una squadra di maestri internazionali, molti dei quali mai venuti in Italia e che attraversano i diversi generi artistici e che stiamo costruendo via via. Maestri del teatro e della performance, diventata da quest’anno uno dei settori del College, aperto ai giovani artisti under 35. Sì, abbiamo alzato l’età dei candidati perché in Italia a 30 anni sei ancora a casa con mamma».
I maestri, le voci degli anziani… dove è finito il vostro gusto iconoclasta rispetto alla tradizione?
Ricci: «Non stiamo parlando di una Biennale per ottuagenari perché i maestri non sono necessariamente anziani. Per noi sono coloro che non si sono piegati, proprio come gli artisti che riceveranno i Leoni».
Forte: «I giovani sono un territorio fragile spesso portato a vedere solo il proprio alluce, e per di più in un sistema che invece li costringe ad avere subito una identità definita. I maestri sono necessari anche per insegnare loro una grammatica, per esempio come stare in scena con etica e responsabilità. Cerchiamo i maestri per costruire, con chi è venuto prima e ne sa di più, una famiglia culturale, cioè una identità per i giovani».
È il segno che siete diventati adulti? Quanti anni avete? Della vostra età non se ne parla mai.
Ricci: «E si continuerà a non parlarne. Abbiamo subìto per anni la sindrome etichettatrice di "fenomeno generazionale". Siamo stati considerati a lungo giovani e di ricerca, dunque relegati ai garage, alle cantine, ai depositi, mentre noi cercavamo di parlare anche al pubblico dei velluti rossi.
La riconoscibilità generazionale non ci ha mai interessato. Da allora abbiamo detto basta. Non conta se siamo vecchi o giovani, conta quello che facciamo».