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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

La guerra Italia-Cina sul peperoncino

È una guerra impari quella sui prezzi del peperoncino che consumiamo in Italia. L’80% arriva dall’estero (India, Cina, Turchia, Egitto e paesi del terzo mondo) e vale mediamente meno di un quinto di quello prodotto in Italia. Se in Italia, da 10 kg di peperoncino fresco si ottiene 1 kg di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro, l’analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli 3 euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata compresi picciolo, foglie, radici – con pochissime garanzie di qualità e requisiti fitosanitari ben diversi da quelli conformi ai regolamenti europei. La denuncia arriva dalla Cia-Agricoltori italiani, impegnata nella valorizzazione della filiera. 
Il grosso della produzione italiana (circa 200 tonnellate l’anno in 400 ettari dedicati) avviene nelle coltivazioni estensive in Calabria, ma sta crescendo in altre regioni come Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Purtroppo, ha goduto in passato di scarsa attenzione, identificato come sottospecie del peperone e considerato come spezia e non prodotto agricolo a tutti gli effetti, finendo confinato alla passione degli hobbisti negli orti o nelle terrazze condominiali. Il valore della produzione italiana è di circa 1,7 milioni, a fronte di un import di circa 2 milioni. Circa 10 milioni complessivi dopo la lavorazione. Cifre piccole che non rappresentano però quanto l’ingrediente sia essenziale per l’industria alimentare italiana. La domanda è infatti sempre crescente da parte dell’industria di trasformazione, che produce sughi e salami piccanti. Senza dimenticare l’export, con la richiesta per salse e condimenti delle grandi aziende del food. Le sole multinazionali dei Paesi Bassi, per esempio, assorbono il 50% della produzione di peperoncino della Calabria. Tant’è che produttori e centri di ricerca italiani puntano sempre più al miglioramento delle qualità. 
Nella zona di Rieti i produttori, assieme all’Università di Perugia, hanno lanciato una nuova varietà. «Il Peperoncino Sabino spiega Luca Rando, agronomo e produttore aderente alla Cia è un incrocio tra il tradizionale Diavolicchio italiano e il Brasil». Molte aree produttive hanno avviato anche le pratiche per il riconoscimento delle denominazioni di origine territoriale che «darebbero al consumatore spiega Rando – garanzia di qualità, tracciabilità e salubrità e un valore aggiunto adeguato ai coltivatori, incentivati ad aumentarne la coltivazione estensiva». Il mercato è infatti alla ricerca di prodotti di qualità. 
Secondo Enzo Monaco, presidente dell’Accademia del peperoncino che ha sede in Calabria, «uno dei limiti italiani è la frammentazione: uno, due ettari per produttore. Per questo, riteniamo che sia da valutare la creazione di un marchio italiano, con eventuali sottomarchi regionali». Polemico, sul punto, è un altro produttore calabrese, Maurizio Aita, che a Myfruit denuncia le pratiche sleali di chi importa peperoncino da Egitto, Tunisia e Spagna e poi lo confeziona come italiano. «Quello che serve afferma – è la chiarezza in etichetta. Moltissimo prodotto estero viene spacciato per peperoncino italiano, il che naturalmente ci danneggia». Fatto sta, che l’elevato costo di produzione del peperoncino italiano, sia fresco che trasformato in polvere, secondo dipende secondo la Cia – soprattutto dall’incidenza della manodopera e da procedure di trasformazione altamente professionali, compresi macchinari per l’ozono per una perfetta essiccazione. «Occorre aggiunge Rando – una maggiore valorizzazione e tutela del prodotto che, grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno, trova nel nostro Paese l’ambiente ideale per la sua coltivazione». Una delle aree di maggiore sviluppo, grazie al clima ideale, è l’Agro Pontino nella zona tra Latina, Formia e Sabaudia.