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 2021  febbraio 07 Domenica calendario

Lasciateci assieme ai pazzi di Mosca

Alla famosa (e un po’ insulsa) domanda sul libro che mi porterei su un’isola deserta, non ho mai saputo cosa rispondere di preciso, ma almeno non ho dubbi sul genere: sceglierei un’antologia ben fatta. E non credo di essere il solo a considerare questo genere letterario insieme il più amabile e il più illuminante. Ciò dipende forse dal fatto che non mi sembra adatta a tutti e così auspicabile la vita del cosiddetto «lettore forte», divoratore di romanzi e trattati. Il «lettore forte» è benemerito perché sostiene editori e librai, ma leggere poco e intensamente, dandosi il tempo necessario a rileggere, mi sembra di gran lunga preferibile, soprattutto dopo una certa età.
Ecco perché, in mancanza di meglio, alla partenza per la dannata isola deserta mi accontenterei anche della più pedante e prevedibile antologia scolastica: ma ovviamente ci sono quelle d’autore, campo in cui primeggia con largo distacco Jorge Luis Borges, che ne ideò parecchie da solo o in compagnia, tutte memorabili, con le loro scelte di autori peregrini e sorprendenti, e l’alternanza di brani lunghi e singoli frammenti che produce ammirevoli effetti estetici (insuperato, del maestro argentino, mi sembra soprattutto il Manuale di zoologia fantastica). Ma vorrei solo citare tre libri, tre antologie che mi sembrano contenere, nelle loro dimensioni ridotte, praticamente tutto ciò che vale la pena leggere nella vita: le Confessioni estatiche di Martin Buber, La ricerca delle radici di Primo Levi e l’Antologia del ritratto di E. M. Cioran.
È con queste parzialissime e arbitrarie inclinazioni che mi sono precipitato sulle bozze del Repertorio dei matti della letteratura russa. Si sa che i pregiudizi favorevoli non sono i migliori consiglieri del critico ma questo libro è così bello, così convincente nella sua ideazione e nella sua esecuzione, che poco ci sarebbe da aggiungere. Nori è un prosatore comico con una netta propensione al monologo stralunato, autore di libri irresistibili come Spinoza e Bassotuba non c’è; è anche un esperto di letteratura russa e un traduttore infaticabile. Ma che scriva un racconto, un saggio o una traduzione, si sente sempre un identico tono, un ricorso alle inesauribili risorse dell’oralità, un’impostazione vagamente teatrale del discorso.

Questo Repertorio è esplicitamente ispirato al Repertorio dei pazzi della città di Palermo di Roberto Alajmo e segue di poco un «corso sintetico di letteratura russa» che Nori ha pubblicato per la Utet nel 2019, intitolato I russi sono matti. Sono due libri che andrebbero letti uno dopo l’altro, al fine di contrarre gioiosamente quella specie di malattia o vizio ricorrente che consiste, secondo Giorgio Manganelli, nel leggere gli scrittori russi. Il ricchissimo Repertorio (848 brani in 283 pagine: forse un record) si è avvalso della collaborazione di più di 50 persone che hanno partecipato, all’inizio del 2020, a due seminari tenuti da Nori tra Milano e Bologna. Non è dato sapere se si trattasse di un seminario di letteratura russa, di psichiatria o magari di meditazione trascendentale. Comunque, per fortuna c’è gente come Nori, perché è pur lecito il sospetto che, tra tante «materie» di insegnamento, l’unica che conti veramente sia l’essere umano, quella che Roland Barthes definiva «la scienza impossibile dell’individuo».
Fatto sta che ognuno dei partecipanti si è preso il compito di leggere almeno 4 libri di o su scrittori russi, scegliendo «i matti che gli piacevano di più». Non sarà un criterio filologico raccomandato nei dipartimenti universitari, ma la sublime insensatezza di quest’esercizio collettivo ha prodotto il libro che oggi teniamo per le mani. A uniformare la ricchissima messe di brani ci ha pensato Nori con delicatissime formule narrative iniziali («c’era uno che...»; «uno che si chiamava...»). Per esempio: «Una pensava di essere un granellino di polvere trascurato da un colossale aspirapolvere perché, forse, diceva, si erano dimenticati di deportarla». La scheggia proviene dalle Memorie di Nadezna Mandel’stam ed è chiaro che l’aspetto russo di tutta la vicenda sta in quel terribile «deportarla».
È abbastanza comprensibile che si vorrebbe citare tutto il libro, facendo di una tale mostruosa recensione un ulteriore esempio di pazzia. Mi limito a un altro esempio: «Uno non aveva una testa ma piuttosto una casa di tolleranza da quanto posto trovava per capire gli altri». Questa viene da uno scrittore carissimo a Nori, Venedikt Erofeev, tra i più citati nel Repertorio. Ma all’appello non manca nessuno dei giganti dell’Ottocento. È da quell’età dell’oro, d’altra parte, che provengono Gogol’ (che finì lui stesso i suoi giorni come pazzo in senso tecnico) e Dostoevskij. Ma l’assenza di un ordine cronologico quasi costringe il lettore a meditare certe costanti antropologiche e psicologiche che travalicano i rassicuranti confini delle storie letterarie.
Ogni epoca, e all’interno di questa ogni strato sociale e culturale, assegnano alla qualifica di «pazzo» un valore e un significato differenti. Perché il «normale» è di definizione ancora più problematica del pazzo, e troppo spesso la normalità ci appare solo come il frutto della sottrazione di tutto ciò che è davvero interessante e originale in un essere umano. E può accadere che la parola «pazzo» finisca per designare non tanto chi è giudicato come tale, ma chi ha pronunciato quel giudizio. Proprio per questo il vocabolo stesso è stato bandito da tutti quei linguaggi (medico, legale, politico...) che ambiscono, a torto o a ragione, a una radicale «correttezza».
C’è da sperare che la letteratura e le altre arti non si accodino mai a queste necessità di purificazione che imperversano nella nostra società: non perché uno scrittore o un poeta debbano per forza essere persone incivili o scioviniste o razziste ma perché molto spesso è il vocabolo «scorretto», come appunto «pazzo», a cogliere nel segno suscitando la giusta dose di immaginazione. Che è esattamente il compito, per nulla pedagogico, che svolgono le opere letterarie. 
Forse un simbolo perfetto di ciò che ci attendiamo da un vero pazzo, o da un vero scrittore, si può riconoscere in quel poliziotto di Gogol’ di nome Prochorov che incontriamo al n. 528 del Repertorio: alla notizia di una zuffa in periferia, l’eroico rappresentante della Legge si era prontamente recato sul posto per ripristinare l’ordine, ma «era tornato ubriaco». Qui la pazzia è come un angelo custode: insinuandosi tra l’intenzione e il risultato, ne scompiglia la deprimente linearità. Questa è una profonda verità russa. E dunque, una profonda verità umana.