La Lettura, 7 febbraio 2021
Ritorna la questione contadina
Un paesaggio verticale di montagne e colline, con poche grandi pianure, talmente vario, lavorato in profondità e ricco di biodiversità da far coniare già nell’Ottocento a Stefano Jacini la formula delle «cento Italie agricole», è oggi divenuto un sistema agro-alimentare composito, con 420 mila aziende moderne, perlopiù connesse ai mercati internazionali (su un milione e mezzo di unità economiche, spesso minuscoli lotti gestiti per conto terzi, con quasi un milione di occupati). Nel 2019 è proseguito il buon andamento dell’export agroalimentare: 41,6 miliardi di euro rappresentano il 9% delle esportazioni totali di merci del nostro Paese. E il trend di crescita sembra continuare, nonostante l’impatto del Covid.
Multifunzionalità, biologico, agriturismo esaltano il modello della piccola-media azienda agricola, in Italia come in Europa. Le antiche arretratezze possono diventare opportunità: tradizione, modernità tecnologica e qualità non sono necessariamente contrapposte. Modernizzazione produttiva e nuovi imprenditori contadini si confrontano: prima il tema controverso della coltivazione degli Ogm, poi il boom delle iscrizioni nelle facoltà di Agraria e lo storico ritorno alla terra dei giovani (oltre 56 mila under 35 anni alla guida di imprese agricole, con un aumento del 12% negli ultimi 5 anni) riaprono il dibattito su scienza, tecnica e sviluppo. Si accendono luci sui meriti e i limiti dell’agricoltura industriale, sui costi del dissesto idrogeologico e sugli equilibri di un ecosistema fragile, ma ricco di potenzialità da valorizzare. Conflitti sociali inediti prendono al contempo forma con l’impiego della manodopera immigrata: i braccianti del nuovo millennio.
L’agricoltura e le campagne odierne sono allo stesso tempo vicine e (molto) lontane dall’immagine di un’Italia contadina che ha a lungo contraddistinto la storia del Paese, dall’Unità in poi. Il latifondo e le aree fertili delle coste e delle poche pianure nel Mezzogiorno, il sistema mezzadrile nel Centro Italia, la grande cascina lombarda, il bracciantato e poi una miriade di contratti agrari (spesso orali e iniqui) hanno segnato la lenta integrazione dei contadini nello Stato moderno. Tra miseria e nobiltà, tra spinte disperatamente antiunitarie (il brigantaggio) e i primi importanti movimenti sindacali (i Fasci siciliani), l’Italia liberale si avviò a essere un Paese industriale in una società fortemente rurale, con il 70% della popolazione attiva occupata in questo settore.
Il «mangiare italiano» diventa uno slogan ricorrente, lungo quel processo di nazionalizzazione del cibo che prende forma e accelera con la Prima guerra mondiale. Che il fascismo esaltò, tra trasformazioni bonificatrici e resistenze conservatrici. Il 2 giugno 1946 il Mezzogiorno vota monarchico in maggioranza; ma una parte dei contadini no, e il loro voto è determinante, come rivelò Guido Dorso. I contadini partecipano, attivamente o indirettamente, alla Resistenza e alla costruzione della democrazia. I conflitti sociali permangono, mentre la Costituzione repubblicana indica nella riforma agraria e nella trasformazione fondiaria (articoli 42 e 44) gli obiettivi del futuro. Riforme, livelli della produzione agro-alimentare e dei consumi sono fondamentali, allora come oggi, per le loro implicazioni sociali, economico-monetarie, politiche.
Nei primi anni dopo la Seconda guerra mondiale, il contributo del settore primario al reddito nazionale è del 32% e del 43 è la percentuale degli occupati sul totale, per 8,5 milioni di addetti (oggi le quote sono rispettivamente il 2,2 e il 4%). Mentre i partiti di massa si confrontano sulle strategie future, nel 1947 arriva il Piano Marshall (rivolto a 17 Paesi), che così tanti punti di contatto ha con l’attuale Recovery Plan. Scoppia la guerra fredda, che investe anche le campagne. Saperi e sapori, culture e colture accumulate nei Regni preunitari e poi parte di una tradizione nazionale in movimento, si confrontano con un’americanizzazione prorompente ma lenta e selettiva. L’Italia agricola è spinta alla convergenza con gli altri Paesi europei; da un lato se ne sottrae, puntando sui piccoli coltivatori diretti e difendendo le tradizioni alimentari dal «gigantismo» Usa; dall’altro accetta la sfida, mettendo in gioco un’utopistica idea di sovranità alimentare. Partiti di governo, Chiesa e organizzazioni come la Coldiretti fondata da Paolo Bonomi nel 1944 (circa 3 milioni di iscritti 5 anni dopo, ancora oggi la forza più rappresentativa tra i sindacati) puntano a rappresentare il mondo contadino. Stabilizzazione e modernizzazione tecnologica, attraverso la Federconsorzi, consentono in poco tempo di importare o produrre sementi ad alta resa; concimi; fertilizzanti; macchinari; ma anche indicazioni su come organizzare fattorie, migliorare processi produttivi, allevare animali, fare ricerca nei laboratori giungono dall’America, insieme ai calcolatori elettronici, alla streptomicina, alla Coca-Cola.
Un flusso di innovazioni investe la società rurale; che velocemente si trasforma, in parte implode o resiste, contribuendo all’industrializzazione. La scelta dei governi De Gasperi di reinserire l’economia nazionale nei circuiti commerciali internazionali, abbandonando ogni velleità autarchica, si rivela decisiva: se l’Italia vuole esportare, deve liberalizzare. Multilateralismo e interdipendenza sono parole d’ordine destinate ad avere lunga fortuna. Dalla riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno (1950), lo Stato democratico risponde al movimento contadino mobilitato dai partiti di sinistra, mentre vengono costruite per la prima volta importanti forme di welfare.
Grazie all’irrigazione, intere aree si trasformano e la produzione aumenta: vecchie povertà lasciano spazio al benessere prima e alle contraddizioni dello sviluppo poi. E l’agricoltura si specializza (aree come il Metapontino saranno definite «la California d’Italia»), mentre con il «miracolo economico», alla fine degli anni Cinquanta, migliaia di contadini abbandonano il Mezzogiorno e intere provincie agricole dell’Italia centro-settentrionale. Il richiamo delle città, del tempo libero, di un reddito maggiore, è troppo forte. Lo raccontano la televisione, poeti e scrittori.
Al contempo, avanza il processo di integrazione europea, con l’ombrello della Politica agricola comunitaria varata nel 1962 – recentemente riformata – che avvia un secondo ciclo comune di stabilizzazione e innovazione. I consumi intanto esplodono e si diversificano, creando nuove dipendenze dall’estero e un disavanzo nella bilancia dei pagamenti. Conquistano comunque importanti settori di mercato prodotti come i formaggi, i vini, l’olio, la pasta. Si entra nei difficili anni Settanta e Ottanta, con le contraddizioni di un’industrializzazione accelerata e la «morte» della civiltà contadina: danni ambientali e inquinamento; scarsa programmazione e controlli; squilibri di reddito tra operai e contadini e tra aree costiere o pianeggianti e quelle interne (la polpa e l’osso, secondo la felice formula di Manlio Rossi-Doria); peso delle divisioni sindacali accentuate dalla guerra fredda; conflitto generazionale tra anziani e giovani che lasciano la terra.
Nonostante questo, agricoltura e contadini hanno svolto e svolgono una funzione essenziale per lo sviluppo e la stabilità del Paese; e all’Europa si guarda ancora per lenire le ferite di uno sviluppo squilibrato che investe tutti i Paesi occidentali. Allora come oggi, ritorna il tema di come portare la città in campagna, favorendo l’afflusso di tecnologie e la costruzione di reti (prima la tv, oggi Internet). E allora come oggi si torna a parlare di una nuova riforma agraria, per combattere le diseguaglianze sociali e valorizzare le differenze colturali e paesaggistiche favorendo la rigenerazione della fertilità: grandi sfide, per il Next Generation Ue, tra un passato ancora presente e l’immediato futuro.