La Lettura, 7 febbraio 2021
Agricoltori, gli altri poveri d’America
«L’America rurale costituisce il 97% degli Stati Uniti. L’agricoltura è la nostra grande ricchezza. Eppure i piccoli agricoltori fanno la fame». Cresciuta in una fattoria a cinquanta chilometri da Wichita, in quel granaio d’America che è il Kansas, la giornalista e saggista Sarah Smarsh, 41 anni, ha dedicato un libro a un tema che conosce molto bene: la povertà dei coltivatori del Midwest e del Sud degli Stati Uniti, che producono il fabbisogno alimentare di un intero Paese senza di fatto goderne. Finalista al National Book Award, Heartland. Al cuore della povertà nel Paese più ricco del mondo, insieme saggio e memoir, esce in Italia il 18 febbraio per Black Coffee. «La Lettura» l’ha intervistata.
Che cosa vuol dire essere il prodotto di cinque generazioni di piccoli agricoltori, come lei si definisce?
«Vuol dire avere radici così profonde nella terra in cui sono cresciuta che ho guidato i trattori sugli stessi campi in cui i miei antenati portavano i carri. Sono cresciuta tra grandissime difficoltà, ma sono comunque stata la prima persona nella mia famiglia a frequentare il college, la prima donna a non diventare una ragazza madre. Il mio libro è la storia di una classe sociale, cosa significhi possedere meno di niente in una nazione fondata sul valore dell’abbondanza a ogni costo».
Lei scrive che sebbene vivesse in povertà, la sua famiglia era convinta di appartenere alla classe media. Perché è difficile parlare di classi sociali, in America?
«Perché l’America si è raccontata per secoli la favoletta di essere una democrazia pura, senza divisioni in classi. Oggi che il Paese inizia ad accorgersi di privilegi e ingiustizie macroscopici, è costretto a ripensarsi. A casa nostra, la percezione era illusoria per tanti motivi. Ci misuriamo con ciò che ci circonda, e se è vero che ci sono stati momenti storici in cui la mia famiglia non ha avuto da mangiare o da vestirsi, quando ero bambina avevamo quasi sempre da mangiare e da vestirci, e ne andavamo fieri. Soprattutto, essere poveri, negli Stati Uniti, ha una connotazione estremamente negativa, di grandissima vergogna. Se sei povero – si crede – è solo colpa tua, che non ce l’hai fatta nel Paese del sogno americano. Non colpa di ragioni sistemiche. Nessuno vuole sentirsi povero nella terra dell’abbondanza, ma il sogno americano non esiste, si è inceppato da tempo. I governi, la cultura capitalista stigmatizzano la povertà come fallimento personale, la mitologia legata al potere dell’individuo è fortissima. E certo, questo potere esiste, altrimenti io non sarei mai riuscita a emanciparmi, ma la maggior parte delle difficoltà che la mia e tante altre famiglie abbiamo patito sono diretta conseguenza di politiche agricole federali che hanno sempre privilegiato la grande industria nell’agricoltura, a scapito delle piccole fattorie a conduzione familiare. Una collusione intenzionale tra governi e grandi aziende per creare condizioni di lavoro impossibili per le piccole aziende agricole, perché si credeva che il settore sarebbe stato più redditizio se industriale. Questo ha costretto moltissime famiglie a vendere la fattoria. Poi certo, anch’io nel mio piccolo sono una privilegiata, perché sono nata bianca, e questo negli Stati Uniti è indubbiamente un privilegio».
Oggi, e in particolare dopo le elezioni del 2016, l’immagine dei «working poor» dell’America rurale è quella di maschi bianchi con tatuaggi e barbe lunghe, armati di pistole e fucili, antiabortisti e trumpiani anche dopo la fine della presidenza Trump.
«Una percezione molto lontana dalla realtà. Purtroppo, a parlare di noi sono spesso i media delle grandi città degli Stati costieri, i cui giornalisti non hanno mai vissuto un giorno nell’America rurale. È falso che i working poor bianchi del Midwest siano stati tutti elettori di Trump. La base di Trump è più ricca dell’americano medio, e se esiste una tendenza, da parte di chi non possiede un’istruzione superiore, a votare a destra, lo scarto è relativo. Alcuni dei progressisti più radicali che conosco provengono dall’America rurale, e questo perché quando cresci in un ambiente conservatore ne vedi le falle. L’America rurale non è una nicchia, non è folclore: siamo 60 milioni di persone. E non siamo neanche tutti bianchi, anche se lo siamo più delle aree urbane. Il simultaneo privilegio di razza e svantaggio economico dell’americano bianco delle aree rurali non è evidente a tanti. I media liberal faticano a parlare di povertà bianca, come se i poveri fossero altri. Ma 40 milioni di persone sono povere in America, 140 sono in difficoltà, e tra loro ci sono piu bianchi di qualsiasi altra componente etnica. Anche se è vero che se sei una persona di colore sei più a rischio di essere povero».
C’è un’espressione che racconta questa miopia: «white trash», spazzatura bianca.
«I poveri, e in questo caso i poveri bianchi, sono visti come scarti, un linguaggio distruttivo. È il disprezzo di bianchi benestanti che magari si considerano progressisti ma ci odiano perché perdenti della loro stessa razza. Un atteggiamento da suprematisti. Dopo le elezioni del 2016 mi sono detta: “Finalmente si parla di noi”. Ma non è stato così. Siamo passati dalla totale invisibilità a essere raccontati come un monolite politico e culturale. Un capro espiatorio».
Lei parla di «povertà intergenerazionale». Che cosa vuol dire?
«Quando mi chiedono che cosa causi la povertà, rispondo sempre: “Nascere povero”. Non è una semplificazione: la stragrande maggioranza delle persone povere lo è perché ha una storia familiare di difficoltà economiche. Gli antenati di mio padre scapparono da una situazione di estrema povertà nella Germania del 1850. Vennero in America, dove iniziarono a lavorare la terra. Più di un secolo dopo, io sono nata da poveri agricoltori. L’ascensore sociale è bloccato: nella mia famiglia abbiamo sempre lavorato durissimo, ma risultati non ne abbiamo mai visti. Intergenerazionalità significa proprio questo, che è quasi impossibile rompere le catene della povertà. Quando sei nel fosso è difficile tirarti fuori».
Sua madre è stata una ragazza madre, e così sua nonna e tutte le donne prima di lei. Quali sono le conseguenze economiche e psicologiche di questa catena che lei è riuscita a rompere?
«Era un imprinting. L’aspettativa implicita che anch’io sarei diventata una ragazza madre perché era l’unica realtà che le donne della mia famiglia avevano conosciuto. Sin da piccola ero consapevole che mia madre fosse molto più giovane delle altre mamme. A scuola ero oggetto di pettegolezzi, venivo additata con imbarazzo. E pur non avendo mai nutrito dubbi sul fatto che mia madre mi amasse, sapevo che se avesse potuto scegliere non mi avrebbe mai avuta da adolescente. Tante giovani donne riescono a conciliare maternità e carriera, ma farlo quando sei povero è molto più difficile. La gravidanza adolescenziale è una grande causa di povertà».
Quali testi dovremmo leggere per comprendere l’America rurale? Le è piaciuto «Elegia americana», di J. D. Vance?
«Sono sempre contenta quando autori dell’America rurale riescono a far sentire la propria voce. Quel libro però non mi è piaciuto: troppo conservatore, troppo polemico, troppo giudicante. Suggerirei di leggere invece What You Are Getting Wrong About Appalachia, “Quello che non capisci dell’Appalachia”, della storica Elizabeth Catte (2018), oltre a tutto ciò che ha scritto sul tema il Premio Pulitzer Dale Maharidge, che dal 1980 documenta la spirale discendente della classe lavoratrice americana, e sulla povertà come eredità e destino di un numero sempre maggiore di americani ha appena pubblicato un nuovo libro: Fucked at Birth, “Fregati alla nascita”».