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 2021  febbraio 06 Sabato calendario

Orsi & tori

Ma Mario Draghi è un tecnico? Quando ci incontrammo, un bel po’ di anni fa, sulle scalinate del Dipartimento di Stato, a Washington, durante la settimana dell’assemblea del Fondo monetario internazionale, Draghi era sicuramente un tecnico ma di nomina politica come componente del board della Banca mondiale. Lo aveva scelto l’allora ministro del Tesoro, il piemontese ragioniere e onorevole Giovanni Goria, sinistra democristiana. Fino a quel momento Draghi aveva fatto il professore all’Università di Firenze. Ci presentò Ettore Mazzotti, che allora era direttore del nostro magazine Lombard. Pur con la sicurezza di una preparazione solida coltivata con i due grandi maestri come Federico Caffè a Roma, e Franco Modigliani al Mit di Boston, appariva un po’ timido, sicuramente schivo. Il legame con la Banca d’Italia lo aveva fin da ragazzo attraverso il padre, buon funzionario-dirigente. E quando tornò in Italia da Washington in Via Nazionale avevano chiaro che alla Banca mondiale, certo una banca, ma dove il tasso politico è altissimo per il ruolo di sostegno ai Paesi più poveri, Draghi aveva fatto un’esperienza completa, non solo tecnica. Ideale quindi per fare il direttore generale del Tesoro, chiamato nel 1991 dal ministro Guido Carli. Per dieci anni, fino al 2001, nel posto più importante dell’alta burocrazia dei ministeri, fra l’altro con l’esperienza e la gestione diretta delle privatizzazioni. Già alla fine dell’esperienza al Tesoro, era più politico che tecnico, ma non si lasciò sfuggire la possibilità di fare il banchiere privato a Goldman Sachs, con un profitto doppio, di vedere i meccanismi delle grandi banche del mondo dal di dentro ma anche accumulando meritatamente un buon gruzzolo. Pronto a terminare l’esperienza al momento giusto, quando Antonio Fazio si dimise da governatore e fu varata la nuova legge per la nomina del governatore della Banca d’Italia. Fu il vecchio amico Cesare Geronzi ad accompagnarlo, per l’investitura a capo di Via Nazionale, dal capo del governo. Era piena estate, il Cavaliere era a Villa Certosa e Draghi si sistemò a Porto Rotondo, ma facendo il bagno si provocò un taglio enorme sotto il piede, facendo diventare rossa l’acqua del mare. La sera dovettero portarlo a spalla dal Cavaliere.
Governatore della Banca d’Italia avendo contro, duramente, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Al punto che, dopo un articolo di MF-Milano Finanza, mi chiese di andare a trovarlo in Banca d’Italia. Mi ricevette nella grande sala della biblioteca della banca. Era veramente dispiaciuto che il secondo divo Giulio gli fosse contro. Non è mai successo che il ministro dell’Economia, che fondeva tesoro, finanze e bilancio, non dialogasse con la Banca d’Italia. Ma fra i due chi dovette cedere fu Tremonti, alla fine dell’ultimo governo Berlusconi, con l’arrivo a palazzo Chigi del professore Mario Monti, nominato sul campo senatore a vita dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Quello sì che, nonostante la carica di senatore, fu un presidente del Consiglio tecnico e basta.
Da governatore della Banca d’Italia Draghi ha giocato benissimo negli organismi internazionali, fino a diventare, sostenuto dagli americani, presidente del Financial stability Forum, che come organismo del G-20 è stato ed è una sorta di stanza di compensazione delle varie banche centrali. Un incarico che gli servì da piattaforma per diventare presidente della Bce. E qui ha compiuto il suo più brillante atto politico, riuscendo nel luglio del 2012 a mettere in minoranza nel board della Bce il coriaceo e politico (membro del partito di Angela Merkel) presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, addirittura in accordo con la Cancelliera. Fu un consiglio memorabile, perché l’onda lunga della crisi del 2008 stava facendo barcollare più Paesi europei, fra cui, in primo piano, l’Italia. Quando fece la tradizionale conferenza stampa dopo la riunione del consiglio della Banca centrale europea, successe una reazione a cui Draghi non aveva naturalmente pensato. Il voto contrario di Weidmann, per quanto isolato, fece pensare ai giornalisti e ai mercati che il presidente della Bundesbank, rappresentando anche la Merkel, si sarebbe preso la rivincita. Infatti i mercati europei, pur avendo Draghi in quel consiglio ottenuto il via libera all’acquisto di titoli di Stato, iniziarono una caduta consistente. Agenzie di stampa e operatori pensarono che per l’italiano più importante in Europa quel gesto avrebbe provocato una reazione tedesca. Invece no. Al telefono Draghi mi invitò ad aspettare l’apertura dei mercati americani. Vedrete che l’interpretazione degli analisti sarà opposta a quella in Europa, mi disse. E così fu. Capovolgimento dei trend, grazie alla grande fiducia degli analisti americani verso la capacità di Draghi di affrontare di petto la crisi e di salvare quindi Paesi importanti come l’Italia, facendo per tutta l’Europa quello che hanno sempre fatto le banche centrali nazionali e cioè battere moneta per sostenere il debito degli Stati. La ennesima conferma del coraggio di Draghi e dell’appoggio dagli Usa, dopo l’ottimo lavoro fatto al Financial stability Forum, primo consesso per una politica monetaria e finanziaria in pratica del G-20, specialmente dopo l’ingresso nell’organismo anche della Cina.
Ho speso un 35% dello spazio di «Orsi&Tori» a raccontare i momenti culminanti della carriera di Draghi, per dire semplicemente a chi pensa a Draghi come a un tecnico stile Monti si sbaglia profondamente. Draghi è un tecnico-politico-tecnico e ancora politico. Ma il termine tecnico nel suo caso vuol dire persona competente, conoscitore di tutti i meccanismi finanziari e bancari, saperli usare ma sempre nell’ambito di una precisa visione politica liberale progressista.
Avrei voluto vedere la sua faccia quando gli avranno mostrato il discorso del presidente del Consiglio uscente, Giuseppe Conte, davanti al tavolino con i microfoni in largo Chigi, ideato e organizzato dall’ineffabile Rocco Casalino, per un breve comizio senza pubblico ma a reti unificate. Il suo giudizio sulla gestione Conte, specialmente in pieno primo lockdown, era stato fulminante, parlandone con un amico, che gli chiedeva un’idea per cambiare la linea del governo: Non ho nessuna idea per cambiare la testa degli avvocati italiani. Gli avvocati al plurale ma solo come raffinatezza imparata negli studi liceali presso i Gesuiti. Ma certo non gli è dispiaciuto che in quel breve comizio a reti unificate ci fosse una sorta di accettazione del suo nuovo ruolo da parte degli avvocati italiani.
Una delle qualità di Draghi è quella di saper aspettare. Sono mesi e mesi che larga parte degli italiani, dei governanti europei e anche dei democratici americani, auspicava e spingeva su di lui perché scendesse in campo e il dibattito, un po’ ozioso, era se diceva di no perché aspettava le elezioni per il presidente della Repubblica, non gradendo essere parte e non super partes. In realtà, ammesso che desideri fare il presidente della Repubblica italiana come apice della sua carriera, sa benissimo che i due ex governatori arrivati al Quirinale hanno fatto prima un inevitabile tirocinio governativo. Luigi Einaudi fu vicepresidente del Consiglio, scelto da Alcide De Gasperi, pur conservando la carica di governatore e non tornò mai in Via Nazionale, spostandosi di qualche centinaio di metri direttamente al Quirinale. Quasi lo stesso percorso di Carlo Azeglio Ciampi, prima presidente del Consiglio, poi, senza imbarazzo, per la discesa a ministro del Tesoro e quindi al Quirinale. E anche Guido Carli, prima di diventare ministro del Tesoro, decise addirittura di candidarsi al Senato.
Gli uomini possono avere desideri o progetti, ma perché si avverino non dipende solo da loro. Più che Draghi abbia desiderio o programma di fare il presidente della Repubblica, conta che l’Italia può contare su un uomo del suo livello, quindi di profilo elevatissimo, avrebbe potuto dire il presidente Sergio Mattarella se avesse parlato solo di Draghi nell’annunciare la fine del governo Conte e il programma di un gabinetto di elevato profilo.
Nessuno ha il diritto di disprezzare il professor Giuseppe Conte, perché nell’incredibile game del governo fra due partiti uniti solo dal populismo come la Lega e i 5Stelle, l’Italia è stata perfino fortunata ad averlo a palazzo Chigi rispetto a cos’altro potesse capitarle. Non disprezzo, senza preparazione non ha fatto malissimo, ma ha commesso alcuni errori gravi: dal chiedere l’aiuto di Vittorio Colao per un programma di azione fatto da tecnici e poi abbandonarlo quasi prima ancora di ricevere il programma, salvo poi farsi organizzare da Casalino lo show flop a Villa Pamphili, ricco solo di protagonismo. In fin dei conti, anche se utile all’avanzamento di un gabinetto Draghi, anche il breve comizio davanti al tavolino in modo da parlare a reti unificate è stato un ennesimo peccato di protagonismo. Non c’è pericolo che con Draghi simili situazioni si ripetano. Il suo senso della misura è assoluto.
Ma i comportamenti sicuramente da ora in poi, anche se da sempre, contano zero rispetto alla sostanza, alla conoscenza dei problemi, alla stima internazionale, all’abitudine a guidare consessi come è un consiglio dei ministri, che non differisce, nella sostanza, da guidare il consiglio della Bce o il direttorio della Banca d’Italia.
I meccanismi dell’elaborazione delle idee e della gestione della diversità delle idee sono analoghi. Con una sola e preoccupante differenza rispetto al futuro consiglio dei ministri, sia che siano ministri provenienti dai partiti della maggioranza, sia che siano in parte indicati dai partiti, come avvenne con il governo guidato da Lamberto Dini, sia con quello di Mario Monti. Il pericolo è uno solo: che i partiti non comprendano che devono rinunciare agli interessi propri e alla ricerca spasmodica del consenso, dei voti. Questa fase della vita dell’Italia dovrebbe essere vissuta dai partiti con lo stesso spirito con cui fu vissuta la fase costituente dopo la Seconda guerra mondiale. Cioè facendo prevalere, in una sorta di armistizio per la prevalenza politica, solo l’interesse generale.
Non vi è dubbio che l’Italia è il più grave ammalato d’Europa. Il Paese non cresce dalla crisi del 2008. Il mancato aggiornamento della struttura costituzionale, l’azzeramento della Prima repubblica per lo scandalo delle tangenti, senza costruirne strutturalmente un’altra più adeguata ai tempi, fa sì che l’Italia resista solo per l’impegno dei cittadini, degli italiani che producono, non certo dei partiti anche se per certi aspetti sono lo specchio di una parte del Paese. Il tutto è aggravato dal fenomeno populista, che di fatto non è né democrazia né meritocrazia e, a sua volta, il populismo è moltiplicato all’ennesima potenza dalla deviazione dei social, dell’illusione, molto radicata nei populisti, che attraverso il potere degli Ott si possa avere una democrazia diretta. Mentre Matteo Salvini, dimenticandosi per un attimo di essere populista, ha battezzato la macchina dei social della Lega con la parola giusta, la Bestia.
Di una cosa possiamo essere certi e non sarebbe anche da solo poca cosa: il professor Draghi non farà dirette su Facebook. Mentre sicuramente gli toccherà subire le dirette su Facebook dei populisti che abbondano nel Parlamento italiano, anche se non sono maggioranza. Proprio per questo, anche se non ce ne sarebbe bisogno, mi permetto di ricordare a Draghi una straordinaria e sintetica analisi del professor Armen Sarkissian, oggi, dopo l’insegnamento a Cambridge, presidente della Repubblica e della nazione armena: «Oggi i politici, via social, vengono giudicati dopo due secondi su ogni loro atto, non alla fine del loro mandato. E inevitabilmente i politici reagiscono allo stesso modo». Potrebbe essere la fine della democrazia che conosciamo e che per fortuna viviamo dai tempi dei greci.
È auspicabile, non certo una raccomandazione che non mi permetterei nonostante l’amicizia, che Draghi assecondi su questo punto fondamentale anche per la ripresa italiana, il programma di imporre regole europee agli Ott, recentemente rilanciato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in risposta alla lettera del ceo del grande editore tedesco Axel Springer: tassazione degli immensi profitti degli Ott, applicazione delle leggi antitrust, anche varandone di specifiche, per ricondurre nel settore la pluralità degli operatori, rispetto della privacy dei cittadini utenti dei servizi via internet, stabilendo che i propri dati personali sono e devono rimanere di una proprietà degli individui.
Draghi ha una montagna di problemi da risolvere, ma fra questi c’è anche, come una bomba atomica, la deviazione dei social. Che per fortuna lui non ama non perché potrebbero essere progresso, ma mancando finora le regole creano solo deviazioni pericolosissime.
Auguri, Professore!