Il Messaggero, 6 febbraio 2021
Storia della Borsa
Cinquanta anni fa, il 5 febbraio 1971, nasceva il Nasdaq, acronimo di National Association of Security Dealers Automated Quotation, ovvero l’Associazione nazionale degli operatori in titoli con quotazione automatizzata. Esso costituisce il primo esempio di mercato borsistico elettronico, formato da una rete di computer. È il prodotto, e il simbolo, della new economy. Uno dei tanti passaggi nella storia della Borsa, che in breve rievochiamo.
Mentre la moneta ha una tradizione ultramillenaria, la Borsa, intesa come luogo di negoziazione di titoli di credito, ha un’origine abbastanza recente. La sua nascita si fa risalire al 1500, quando a Bruges la famiglia dei Van der Bourse organizzò nel palazzo di famiglia, coronato da uno stemma di tre borse, la prima sede di scambio di documenti rappresentativi di merci o di obbligazioni. Nello spazio di un secolo questa attività si affermò soprattutto nelle Fiandre, dove la borghesia mercantile si stava arricchendo con quell’orgoglio calvinista che Rembrandt e i suoi contemporanei avrebbero rappresentato con tanta accuratezza ed efficacia. Da lì passò al resto d’Europa, fiorendo non nelle città più grandi ma in quelle più commerciali: Lione nel 1548, seguita a ruota da Tolosa, Rouen e Bordeaux. Parigi dovette attendere fino al 1724. In Italia la prima sorse, com’era naturale, a Venezia nel 1600, e passò un lungo intervallo prima che altre Borse fossero istituite a Trieste (1775) a Roma (1802) e a Milano nel 1808. Le due che oggi dominano i mercati mondiali sono più o meno della stesso periodo: il London Stock Exchange diventò operativo nel 1801 e Wall Street nel 1792. Da allora lo sviluppo fu tumultuoso, e alla compravendita delle azioni si associò l’aspetto meno nobile della cosiddetta speculazione. Si comprò con soldi presi in prestito, e si vendette allo scoperto beni che non si possedevano. La letteratura francese, da Dumas a Balzac, descrisse numerosi personaggi arricchitisi, o rovinatisi, giocando con i soldi altrui e rischiando la pelle propria. Ad ogni ciclica crisi di liquidità o di repentini mutamenti politici i faccendieri scappavano e i truffati si tiravano un colpo di pistola. Un secolo dopo, con il crack del 29, la storia si ripetè, per rinnovarsi, in modo meno cruento ma altrettanto doloroso, con i crack della Lehman Brothers e a seguire delle banche italiane.
Per chi vede la Borsa non come un investimento duraturo, ma come un rapido strumento di ricavi, vige un principio: «Vendi, guadagna e pentiti». È l’ossimoro di un rischio prudente: acquistare nella prospettiva di un aumento del prezzo e monetizzarlo subito se si è stati fortunati, anche a costo di rinunciare a profitti ulteriori e di rammaricarsi se i valori continuano a crescere. In realtà il suggerimento è seguito da pochi: la nostra congenita avidità – unita all’immaginazione illusoria del putant quod cupiunt (oggi detto wishing thinking, si crede ciò che si vuole credere)- ispira spesso un attendismo ottimistico, finché un brutale abbassamento dei listini riporta l’imprudente investitore all’amara realtà di una perdita secca. Così l’avventuroso trader si trasforma in quello che si chiama cassettista, perché tiene nel cassetto, in attesa di un recupero, i titoli dai quali sperava di trarre un facile lucro.
Difficile dire di chi sia la colpa di queste oscillazioni che spesso travolgono ignari risparmiatori: in linea teorica, il valore di un’azione dovrebbe rappresentare lo stato patrimoniale della società quotata, e poiché, salvo imprevisti eventi catastrofici, è difficile pensare che un’azienda crolli improvvisamente, le variazioni dovrebbero essere graduali. In realtà non funziona sempre così. Il valore di un bene, a differenza di quanto pensavano Marx e gli economisti cui si ispirava, non è dato da parametri oggettivi, men che mai dalla quantità di lavoro necessario per produrlo, ma dal prezzo che uno è disposto a pagare per acquistarlo. Così è per la borsa. Spesso non si compra per quello che è il valore sottostante al titolo, ma per quello che si crede che valga, o che varrà in futuro, o che qualcuno ti convince che possa valere. Così si crea la cosiddetta bolla speculativa: la gente acquista il titolo che sale, pensando che continui a salire. Alla fine il titolo crolla, pochi ci hanno guadagnato molto, e tanti hanno perso tutto.
Nel suo aspetto più deteriore, la speculazione borsistica ha poi moltiplicato il trucco chiamato schema Ponzi o marketing piramidale, e che tutti conoscono come la più nota Catena di Sant’Antonio. Il sistema Ponzi – chiamato dal nome dell’inventore Charles Ponzi, un romagnolo emigrato a New York, – consiste nel remunerare prestiti con i capitali di altri finanziatori. Si promettono tassi altissimi, e così si acquisiscono clienti nuovi, che versano somme con le quali il banchiere paga gli interessi ai clienti vecchi. Naturalmente la catena ad un certo punto si rompe, lasciando con il cerino in mano i malcapitati che ne hanno costituito l’ultimo anello: quelli cioè che chiedendo la restituzione del capitale si sentono rispondere che questo è svanito.
Ma poiché la fantasia umana non ha limiti, il sistema è stato perfezionato attraverso l’avvento della tecnologia telematica, e l’ultimo scandalo di GameStop ne rappresenta un esempio significativo. Alcuni grossi investitori prendevano a prestito azioni dell’azienda in difficoltà, e li vendevano facendone crollare il prezzo, con l’intento di comprarli e quindi di ricoprirsi – pagando assai meno di quello della cessione e incamerando in tal modo l’ingente differenza. Sennonché attraverso i social network molti piccoli trader (anch’essi animanti da intento speculativo), accortisi che lo scoperto aveva assunto dimensioni anomale, si sono coalizzati per acquistare i titoli in massa facendone lievitare il prezzo. Così, quando i fondi speculativi hanno dovuto ricoprirsi, sono stati costretti a pagare assai di più, con perdite enormi. Come si vede, è un gioco delle parti in cui il debole soccombe al più forte: ma se i deboli si uniscono i più forti sono loro (perlomeno fino a quando i più forti si riorganizzano). Esattamente ciò che, per la politica, insegnava John Locke, elaborando la teoria del patto sociale.
Queste anomalie rappresentano, ovviamente, l’aspetto patologico di questo indispensabile e utile strumento di scambi, senza il quale economia e finanza globali non sarebbero nemmeno immaginabili. Per di più queste furberie sono nate assieme alla Borsa, per la quale si può dire che plus ça change, plus ça reste la meme chose. Anche l’avvertimento agli improvvisati investitori rimane sempre lo stesso: nessuno ti regala niente, il denaro è meglio guadagnarselo, e i miracoli, in Borsa, non li fa nemmeno Sant’Antonio.