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 2021  febbraio 06 Sabato calendario

La svolta di Renato Pozzetto

«Posso chiederle di cominciare l’articolo con le parole che ha usato nel suo messaggio?». 
Quali? 
«“Ho visto il film, è molto bello e lei è straordinario”. Ci terrei, perché sono due frasi gentili: una per Pupi Avati e una per me». 
Negargli la cortesia è impossibile. Renato Pozzetto, a 80 anni e dopo 70 film comici, debutta in un ruolo drammatico e davvero riesce a commuovere con la facilità con cui è riuscito sempre a far ridere. Ne avrebbe chiesta anche un’altra, di cortesia: quella di sorvolare su una scena di pianto fuori copione. Però, accontentarlo significherebbe non raccontare il suo genio e quanto lui sia ancora indomito, e anche un po’ sorvolare su cosa sono il dolore e la rimozione del dolore. Insomma, Avati lo ha voluto protagonista di Lei mi parla ancora, in prima assoluta su Sky Cinema lunedì 8 febbraio alle 21.15. È la storia di un amore d’altri tempi capace di sopravvivere anche alla morte di uno dei due. Giuseppe Sgarbi, detto Nino, e Rina Cavallini s’innamorano, giovanissimi, si sposano e staranno insieme per 65 anni. Erano i genitori di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi. È quest’ultima, di mestiere editrice, che sperando di aiutare il papà a superare il lutto, gli affianca un aspirante romanziere per scrivere la storia del suo amore con la mamma. Intorno a quel libro, ora ripubblicato dalla Nave di Teseo, Avati costruisce un film che è un manifesto sentimentale, un inno al «per sempre», in tempi di amori fragili e brevi. Per inciso, lui sta con la moglie da 53 anni, Pozzetto ha perso la sua, dopo una vita insieme, 12 anni fa. 
Pozzetto, perché solo adesso un film drammatico? 
«La mia natura era diversa. Avevo iniziato con Cochi nel dopoguerra, per essere contenti noi e far felici gli amici. Da lì, il cabaret, dove abbiamo conosciuto i nostri divi: Enzo Jannacci, Dario Fo, Giorgio Gaber. Ci esibivamo al Cab64 con Lino Toffolo e loro passavano a trovarci. Poi, Jannacci ci propose di andare al Derby, arrivò Felice Andreasi… Tutto questo per dire che noi il drammatico non l’abbiamo mai sfiorato neanche come interesse. Invece, leggendo il copione di Pupi, mi sono commosso». 
Che cosa l’ha commossa? 
«La storia. Il momento in cui la moglie, Stefania Sandrelli, va all’ospedale e io che sono il marito capisco che non tornerà più». 
Questa è anche un po’ la sua storia. Anche lei è stato con sua moglie Brunella per tutta la vita e l’ha persa. 
«Che c’entra? Sono un attore, non è che se devo fare Tarzan vado nella foresta, faccio la scimmia e volo da un albero all’altro. Non è che ho girato Il ragazzo di campagn a e, prima, ho fatto il contadino. E poi: qual è la vita in cui non si hanno o quei momenti?». 
Sbaglio o ancora le è difficile parlare di lei? 
«È vero, preferisco di no. Questa stanza è piena delle foto nostre: lì avevo appena iniziato a fare cinema; lì siamo con due amici... Quella è Brunella con Francesca bambina. La casa è piena di foto così». 
Avati, sul nostro 7, ha detto che parlando per la prima volta del film, lei ha pianto perché si è immedesimato. 
«Ha detto così? Le spiego io come è andata: un giorno, mi telefona e mi dice che mi vuole protagonista di un film che ama tanto. Dico: fammelo leggere. Arriva il copione, resto affascinato. La mattina dopo, Pupi arriva precipitosamente da Roma a Milano. Faccio preparare un piatto di spaghetti. Io ero sicuro di fare bene la parte. Gliel’ho detto fuori dai denti. Il copione mi aveva smosso qualcosa, sentivo di potermela giocare in modo onesto. Quindici giorni dopo, eravamo sul set. Forse, lo ha affascinato la mia sicurezza». 
La sicurezza non il pianto? 
«Macché… Il pianto è un mio trucco, ma non lo scriva». 
Intanto, lo spieghi. 
«Io piango quando voglio convincere qualcuno a fare quello che voglio». 
Cioè, la sua era una prova d’attore per convincere il regista? 
«È una tecnica che ho collaudato quando non riuscivo a spiegarmi con l’architetto che mi stava facendo la casa di Roma». 
E Avati ci ha creduto tanto da dire «le scene in cui Pozzetto si commuove non sono finzione»? 
«Ma assolutamente. Ma che significa. Il copione lo leggi una volta, due, poi non è che ti commuove ancora». 
Nel film, Nino ancora parla con la moglie morta. E lei? 
«Non le parlo e, soprattutto, non la sogno. Non sognarla mi addolora molto. Era mia moglie, vorrei rivederla. Era simpatica, spiritosa. È stata paziente col mio lavoro quando stavo lontano a girare». 
Oggi, è ancora possibile l’amore per sempre? 
«Devi essere innamorato. Se due lo sono e si augurano l’amore oltre la morte, non è che si sposano e dopo due mesi si sono stufati». 
Il giorno del matrimonio, Rina scrive una lettera a Nino in cui gli promette che, dandosi reciproco amore, sarebbero stati immortali. 
«L’amore va oltre tutto. Infatti, a fine film, cito Cesare Pavese e dico “l’uomo mortale non ha che questo di immortale: il ricordo che porta e il ricordo che lascia”». 
Le piacerebbe interpretare altri personaggi romantici o drammatici? 
«Non sono mica di quelli che fanno un commissario e lo rifanno per dieci anni. E poi, far piangere o far ridere non differenza. È sempre cinema: ogni giorno, si lavora tutti insieme per portare a casa un pezzo di film. Questo mi è piaciuto perché tutti sono bravi: Fabrizio Gifuni che fa lo scrittore, Isabella Ragonese e Lino Musella che fanno me e Stefania da giovani…». 
Lei che film guarda? 
«Nessuno. Non vado a pesca, non gioco a tennis, non vado allo stadio, preferisco vivere: amavo viaggiare, navigare, guidare. Ho fatto tre Parigi – Dakar. Oggi, posso solo passeggiare. Per fortuna, abito nello stesso palazzo dei miei due figli e dei miei cinque nipoti, ci vediamo, stiamo insieme. Per tutto il resto, sono qua che aspetto il vaccino».