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 2021  febbraio 06 Sabato calendario

Intervista a Helga Schneider

A quattro anni sua madre abbandonò lei e il fratellino di 19 mesi per arruolarsi nelle SS e fare la guardiana a Ravensbrück e Auschwitz. Poi arrivò il «rogo di Berlino» con bombe, fame, paura, morte. Insomma l’orrore. Mentre il Reich crollava ci fu anche una stretta di mano al Führer asserragliato nel bunker («Mi portarono là dentro con altri quindici bambini, eravamo tesi, spaventati. Lui, che la propaganda ci dipingeva come un semidio, zoppicava per l’attentato di von Stauffenberg cui era scampato, aveva un braccio malconcio, i timpani rotti, era drogato di psicofarmaci per stare sveglio e per prendere sonno; la mano era umidiccia, molle, quella di una persona malata»). Helga Schneider appartiene a quella generazione di tedeschi «vittime involontarie dei crimini di Hitler» («non l’ho votato, ho solo subito le conseguenze dei suoi crimini») che ha ricevuto il carico delle colpe dei genitori e ha dovuto sgombrare macerie edili e morali. Avrebbe potuto soccombere, invece, come un’Ernaux germanica, ha fatto della sua vita eccezionalmente normale un paradigma narrativo. Da trent’anni racconta, talvolta in memoir talvolta in romanzo, ciò che ha visto e provato sulla propria pelle per testimoniare (a una contemporaneità di corta memoria) che nella storia europea c’è stato un buco nerissimo. E che pace, prosperità, persino vita sessuale sono appesi a un filo che chiunque può recidere.
Vive a Bologna dal ’63, da quando incontrò il futuro marito accanto a un jukebox. Ora è vedova. La sua piccola abitazione è una tana di scrittura. Mobili della cucina assediati da fogli, mensole, oggetti. Due computer. Alle pareti, le sue opere grafiche («un hobby, la mia parte di vita colorata»). Fotografie che puntellano ricordi di gioia e tragedia. Una grande, riprodotta sulla copertina di I miei vent’anni, di quando era una bellissima ragazza nell’Austria del dopoguerra, quella esausta e caotica del Terzo uomo e dei cabaret. Qui, fuggita di casa dal padre distratto e dalla matrigna severa, si guadagnò la pagnotta lavorando come presentatrice nei night («L’ambiente delle ballerine, delle entraîneuse, delle spogliarelliste, mi ha insegnato molto. La miseria ha indotto a cose che tanta gente non avrebbe mai fatto. La guerra lascia una scia di disperazione ben oltre i campi di battaglia»). Tra le altre fotografie, anche quella dell’amatissima nonna, del fratellino e di una zia, che si suicidò dopo essere stata violentata da sei soldati russi.
Le traduzioni dei suoi libri occupano un paio di scaffali, ce ne sono in tutte le lingue, cinese compreso. La maggior parte degli altri volumi sono in tedesco. In mezzo spuntano i vecchi classici Fabbri, Calvino, Susanna Tamaro. Quale scrittore le ha insegnato la nostra lingua? «Nessuno, leggo poco la letteratura italiana. Scrivo in italiano, parlo un pessimo tedesco, tant’è che mia cugina mi prende in giro per l’accento bolognese, ma leggo quasi esclusivamente in tedesco. Ora sono su Gide, mi interessa la sua forza di outsider. Ogni tanto rileggo, queste sì in italiano, le fiabe di Grimm e Andersen, crudeli, cattive, dispettose, violente come lo è la vita. L’uomo ha una metà oscura dentro di sé, se viene stuzzicata si trasforma in belva».
Perché un romanzo sui gay sotto Hitler?
«Perché è una persecuzione che non ho ancora sviscerato. E perché l’omofobia è un doloroso problema sociale. Nonostante l’Italia abbia appena approvato una legge sulle unioni civili ogni giorno si sente di ragazzi gay cacciati dalle famiglie, picchiati per strada, insultati sui social. E lo stesso succede in Germania. La democrazia non è completa finché qualcuno può essere discriminato per la propria identità».
Prima del nazismo la Germania era accogliente con gli omosessuali?
«Berlino era la capitale mondiale della movida gay. Attirava da ogni parte del mondo, basti pensare a Isherwood, o alle battaglie scientifico-sessuologiche di Hirschfeld. C’erano locali, cabaret, quartieri interi. Ma era una libertà ambigua, perché nonostante la tolleranza il codice penale prussiano vietava e puniva l’omosessualità. Tra l’altro il famoso paragrafo 175 rimase in vigore fino al ‘94. Era il simbolo della fragilità weimeriana. Si danzava sul bordo dell’inferno».
Il suo romanzo è ambientato nei primi mesi del 1933. La "persecuzione" iniziò subito?
«Gli omosessuali erano l’altra grande ossessione insieme agli ebrei. Appena i nazisti presero il potere, scattarono retate e arresti. Criminali e poliziotti corrotti ne approfittarono per ricattare e taglieggiare locali, come racconto nel romanzo. Uno dei più fedeli collaboratori di Hitler, Ernst Röhm, il brutale capo delle camicie brune, era dichiaratamente omosessuale. Famoso per i festini con soli uomini. Hitler lo fece ammazzare nel 1934 nonostante l’antica amicizia».
I giovani protagonisti vengono arrestati e umiliati pesantemente. E’ realtà?
«I gay berlinesi all’inizio finivano alla famigerata Columbia Haus, prigione sotto il controllo della Gestapo. Lì ci furono brutalità sempre peggiori. Potevano essere arrestati in base a semplici sospetti, torturati, con compiaciuta crudeltà, erano solo "schwuli". Fu un crescendo finché anche i gay vennero mandati nei Lager, marchiati con il triangolo rosa».
Perché, secondo lei, la storia della persecuzione gay è stata poco esplorata?
«Forse perché quello dell’omosessualità continua a essere un argomento imbarazzante anche per gli storici, e inoltre il numero di omosessuali perseguiti, arrestati, castrati e internati in campi di concentramento si aggira intorno a 100 000, ben diverso dai 6 milioni di ebrei dell’Olocausto».
Perché nei libri torna sempre al nazismo?
«E’ la mia materia, la mia vita, la mia forza. Quasi un imperativo categorico, per citare il vecchio Kant. Racconto la guerra, gli orrori della dittatura, e le conseguenze sui popoli perché la democrazia non è un diritto acquisito. La politica continua ad abbondare di pifferai magici pronti a condurre le nazioni alla rovina. E le nuove tecnologie sono un’arma potente al loro servizio. A dire il vero il mio primo romanzo era una storia d’amore. Lo pubblicai con un piccolo editore. E fu proprio un giornalista della Stampa, Gabriele Romagnoli, a consigliarmi di lasciar perdere. Sei testimone di una storia fortissima, disse, scrivi quella».
Il romanzo racconta anche la drammatica lacerazione che si produce tra genitori e figli. Suo figlio è gay. Lei come ha reagito al suo coming out?
«Me l’ha detto intorno ai diciassette anni. Sono stata al suo fianco, ma come madre non ho fatto salti di gioia, perché sapevo che avrebbe dovuto combattere battaglie molto dure in questa società. Ora è felice, vive con un compagno da oltre dieci anni».
Ha letto il romanzo?
«Non ancora e non so se mai lo leggerà. Viviamo a tre isolati di distanza ma abbiamo radi rapporti. Paradossalmente vedo più il suo compagno di lui. Se n’è andato di casa a vent’anni, non mi ha mai perdonato di avergli taciuto che sua nonna era una criminale di guerra e di averlo scoperto dal mio libro. Non capisce che anch’io ho sofferto, perché quella nonna mostro non è mai stata una madre. Sono nata sola, sono cresciuta sola, e mi ritrovo sola».
Dopo tanti anni ha perdonato sua madre?
«No. La ferita non si è mai rimarginata. Sappiamo che le donne hanno fatto cose terribili nei campi di sterminio. Avrei potuto capire che mia madre per necessità avesse fatto la prostituta. Invece così no. So che ha compiuto il male per ambizione, per una distorta ideologia politica. Credeva ciecamente nel nazismo. Sono andata a trovarla in Austria nel 71 dopo trent’anni che non la vedevo. Non sapevo nulla di lei e del suo passato. Fu uno choc, perché non solo non si era pentita di ciò che aveva fatto, ma ne andava orgogliosa. Aprì un armadio, mi passò la sua uniforme e disse di indossarla per vedere come stavo, "Ho sempre sognato di vedertela addosso"».
Lei come madre come si giudica?
«Non sono stata una madre all’italiana. Ho sicuramente danneggiato la crescita psicologica di mio figlio».
Perché?
«Avevo alle spalle un passato che mi aveva tolto tutto e volevo strappare qualcosa alla vita. Ho cercato caparbiamente di inseguire anche la mia felicità e la mia realizzazione».
Quale risarcimento chiedeva?
«La scrittura. Volevo scrivere, non tanto per fare carriera, quanto per esprimermi. Era cura, era conforto, era sogno. A parte la macchina da scrivere su cui battevo forsennatamente, non sapevo però come farmi leggere».
Come ha iniziato?
«Con un’iniziativa che oggi sarebbe impossibile. Ho telefonato al caporedattore del Carlino sera, Gualtiero Vecchietti, per dire che avevo una serie di articoli da sottoporre. Lui mi ha ricevuto, praticamente non mi ha neanche parlato perché il telefono squillava in continuazione. Ha dato un’occhiata veloce, che mi sembrò anche distratta, ai miei fogli sdruciti. La settimana dopo è uscito il primo articolo. Raccontavo piccole storie normali di vita quotidiana. Condomini. Scarpe ortopediche del figlio. Dinamiche di cortile. La rubrica si intitolava Parliamone un po’. Ho cominciato a fare anche inchieste, interviste, a girare la città con taccuino e fotografo. Mi sentivo di poter cambiare il mondo. Poi ho imparato che il mondo torna sempre quello che era».
La sua storia personale diventa a questo punto anche una storia di orgoglio femminile, di autodeterminazione in un’Italia che ancora faticava a essere autenticamente «femminista».
«Oltre alle difficoltà come donna a entrare in un mondo allora molto maschile ho incontrato l’ostilità in casa. La famiglia di mio marito non voleva assolutamente che facessi quella vita. Per loro una donna doveva essere mamma, casalinga, preparare il cibo. Io invece ero una pessima cuoca, non era la mia vita. Ci furono discussioni, litigi, maldicenze. Ma non mi sono arresa. Sono prussiana, forgiata nell’acciaio krupp. La scrittura era tutto per me. Non potevo rinunciare anche a quello».
L’Austria di Bernhard e della Jelinek può essere ostile e soffocante: lei che a un certo punto l’ha lasciata, la pensa alla stessa maniera?
«Conosco molto superficialmente Bernhard; di Elfriede Jelinek ho letto solo La pianista. Ammiro il coraggio del suo stile un po’ brutale e sarcastico, ma non la amo. Detto questo la mentalità dei popoli cambia nel corso del tempo, e a causa degli eventi. Prima dell’annessione alla Germania di Hitler, nel 1938, l’austriaco aveva caratteristiche che durante il regime nazista mutarono completamente, divennero altro. E di nuovo dopo la liberazione dal giogo nazista. E ancora adesso, la mentalità del popolo austriaco è cambiata, forse perché modellata dall’immigrazione e dalla condivisione di altre culture e costumi. Da parte mia, ogni volta che negli ultimi anni sono andata in Austria mi è piaciuta la riservatezza, ma nello stesso tempo l’accoglienza degli austriaci, l’amore per l’ordine e la pulizia (anche dei loro parchi!). Il loro attaccamento alle tradizioni per me è forza, non ottusità».
Perché scelse l’Italia?
«Dopo la guerra vivevo a Vienna e avevo una relazione con un italiano, figlio di proprietari di una gelateria. Un giorno sua madre mi contattò per ordinarmi di lasciarlo. Si era sposato a mia insaputa. Per esorcizzare il dolore decisi di andare insieme a un’amica proprio in Italia. Lei mi piantò a Firenze per andarsene con un albergatore di Rapallo. Io finii a Bologna. Era il 1963. E, sbagliando, non sono più ripartita».
Fu un errore?
«Sì, perché ho reso infelice mio marito e in fondo anche mio figlio. Quel ragazzo si era innamorato di me, forse perché ero carina, forse perché straniera. Mi portò nella sua famiglia numerosissima, con una grassa mamma che preparava da mangiare per tutti. Riuniti intorno alla tavola sembravano allegri, bonari, leggeri. Il mio spasimante mi chiese di restare lì con loro e io che ero cresciuta senza famiglia risposi "sì", sedotta più che dall’amore dal calore di "un" gruppo. Era tutto molto confortevole. Poi quella famiglia si è dimostrata la mia grande nemica».
La sua battaglia con la vita non era ancora finita…
«Mi sono ritrovata vedova e senza lavoro perché l’azienda dove facevo l’interprete fallì. Per guadagnare da vivere mi misi a stirare camicie in un lavasecco. C’era da tirare su un figlio, pagare l’affitto e le bollette. Però tutte le fatiche alla sera scomparivano quando mi mettevo alla macchina da scrivere. Di notte scrissi Il rogo di Berlino. I fantasmi e le ferite dell’infanzia riemergevano a folate, eppure si scioglievano come per magia nelle parole che prendevano forma sulla carta. Stavo male fisicamente, ma sentivo che mi faceva bene. Il libro fu rifiutato da più di un editore. Poi un giorno l’agente mi telefonò. Era il mio compleanno, mi disse, siediti, devo farti un bel regalo, Calasso ha deciso di pubblicarti. Il libro uscì con Adelphi, lo lesse anche la titolare della lavanderia. Mi telefonò per scusarsi di avermi trattata male quando non stiravo il giusto numero di camicie all’ora. E io rinacqui».