Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  febbraio 06 Sabato calendario

Intervista a Emma Cline

A Los Angeles è mezzogiorno. Emma Cline risponde su WhatsApp. La pandemia l’ha costretta a cedere e si è dotata di uno smartphone, oggetto tecnologico del quale ha sempre diffidato.
«L’ho preso proprio prima del lockdown e mi aiuta a stare in contatto con la gente. Ma non amo essere dipendente da questo simulacro di connessione. Specialmente ora che il mondo è così chiuso, sembra che sia l’unico luogo che può darti qualche iniezione dal mondo esterno, ma non è vero. Comunque mi manca il vecchio cellulare, forse quando finisce la pandemia lo ripristino».
Atteggiamento anomalo, per una trentenne, ma non sembra snobismo intellettuale: niente social, poco Internet, fin da quando è bambina i suoi mondi sono altri, immaginari. Precoce in tutto, Emma. Da piccola, particine in pubblicità e sceneggiati televisivi (era bionda e bellina), diploma a 16 anni, a 18 è al college dove vince un premio con il suo primo racconto. Quindi master alla Columbia University, periodo in cui inizia a costruire il suo curriculum blasonato. Pubblica sul New Yorker, Paris Review, viene nominata tra le giovani promesse da Granta: promessa mantenuta quando nel 2016, a 27 anni, diventa una star con il romanzo d’esordio Le ragazze (Einaudi Stile libero Big, traduzione di Martina Testa): 2 milioni di dollari di anticipo da Random House, diritti cinematografici venduti a Scott Rudin (è in lavorazione una serie tv in sei puntate), tre mesi nella lista dei bestseller del New York Times, tradotta in 35 paesi.
Questi successi precoci possono causare danni enormi, se non hai le spalle larghe da scrittore vero. Ma non sembra il caso della Cline, che sta lavorando a un nuovo romanzo in uscita l’anno prossimo e nel frattempo ha raccolto in volume i suoi racconti giovanili sotto il titolo di Daddy (Einaudi Stile Libero Big, traduzione Giovanna Granato). Detta così fa un po’ ridere, però è difficile definirli in altro modo trattandosi di racconti scritti nel decennio dei vent’anni.
E quindi con lo smartphone il lockdown è andato meglio?
«La mia vita lavorativa in verità non è cambiata molto. Scrivere è un’attività solitaria e io lo faccio da casa. Quindi sono abituata alla parte logistica di stare chiusa tutto il giorno davanti a uno schermo. Ho trovato più pesante la parte emozionale. L’atmosfera, l’ansia, le turbolenze politiche della presidenza che si è appena conclusa: ho fatto fatica a focalizzarmi. Ho amici che invece si sono rifugiati nel lavoro, che hanno trovato molto confortante buttare lì tutte le proprie energie».
Parliamo di "Daddy". Perché questo titolo?
«Mettendo insieme le storie mi chiedevo quale fosse il collante, alcuni temi si sovrapponevano e ho notato che c’era una dinamica di uomini anziani con donne più giovani o dinamiche familiari dove si mette in dubbio la figura patriarcale. Il significato di Daddy in americano ha varie sfaccettature. Uno molto innocente, semplicemente papà. Uno più malizioso, con uno sfondo sessuale, come in Sugar Daddy. E questo poter variare tra due estremi mi è sembrato la definizione corretta per il tono dei racconti».
In "Harvey" hai ricostruito la storia di Weinstein dal suo punto di vista. In questi racconti, ancora una volta, cerchi di immaginare la vita interiore degli uomini. Perché?
«Non so perché sono attratta da questo tipo di personaggi. Scrivere è una cosa misteriosa, non so perché mi interessano certe relazioni o certe dinamiche. E sono sicura di non avere uno scopo, non penso a un messaggio che sto cercando di veicolare con le mie parole. Non voglio insegnare niente a nessuno né sottolineare alcun punto di vista morale. Non credo che la fiction ti faccia diventare una persona migliore e non ho un messaggio politico da mandare. Negli Usa, specialmente negli ultimi cinque anni, si è parlato molto di questo tipo di uomini e delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. Ma questa divisione tra bianco e nero, i buoni e i cattivi, cosa è giusto e cosa non lo è, va bene per un articolo di giornale. Credo che la fiction serva invece per indagare le aree grigie».
Anche Harvey Weinstein è grigio?
«Non penso certo che sia una brava persona. Ma non penso nemmeno che fosse questo orribile personaggio per 24 ore al giorno. Come ognuno di noi, avrà avuto sogni, fastidi, momenti di pesantezza: per me è più interessante pensare anche a persone come lui come a esseri umani e non come al cattivo dei cartoni animati».
Pensi che questi tuoi racconti siano così potenti ora perché arrivano dopo il #Metoo? O forse siamo noi lettori che li leggiamo con occhi diversi?
«È curioso. Ho scritto Le ragazze prima del #Metoo. È interessante come il tuo inconscio lavori riportandoti sempre sugli stessi argomenti, sulle cose che ti preoccupano. Queste mie storie sono la risposta al momento culturale, al modo in cui io vedo la dinamica tra generazioni, tra uomini e donne, ai rapporti di potere».
(La biografia della Cline aiuta probabilmente a capire questo suo tornare sull’argomento dei rapporti uomo-donna. Quando aveva vent’anni ha avuto un fidanzato molto più maturo di lei, lo scrittore trentatreenne Chaz Reetz-Laiolo, con il quale è finita malissimo: lui l’ha accusata di avergli riempito il computer di cimici e di avergli rubato l’idea del romanzo. La Cline ha vinto la causa).
Qual è la differenza, per te, tra scrivere un romanzo e un racconto?
«I racconti sono una forma che ho sempre amato. In verità ho iniziato da lì, perché nei corsi di scrittura creativa si inizia con i racconti. Il romanzo richiede uno sforzo maggiore, ci vuole molta abilità per tenere tutte quelle palle in aria e farle ruotare con maestria. Ti imbarchi in un lungo viaggio ed è necessario dargli una forma più definita. Mentre i racconti li vedo più come una sorta di agopuntura, in cui si ha a che fare con una sottile corrente di energia che va indirizzata di volta in volta, è più una questione di sfumature».
Questa raccolta mi ricorda un po’ alcuni racconti di Raymond Carver. Scarni, minimali, con un finale aperto, sempre in sospeso tra quello che è e quello che potrebbe essere…
«È vero. Amo Carver. Ed è vero che in queste storie non c’è una conclusione definita perché la maggior parte delle volte la vita è casuale e senza senso, o almeno io non ce lo vedo. Tutto è così fuori controllo e senza significato, tutto può cambiare all’improvviso, le cose accadono senza un’apparente ragione. Soprattutto oggi in America. Anche l’idea stessa che l’America sia un paese così democratico e così avanzato si è rivelata una finzione totale. Quindi aspiro a una fiction che riconosca questo aspetto e che ci porti invece a indagare l’interiorità della vita».
Da dove viene la tua ispirazione?
«Da libri che leggo, dall’arte, dalla poesia, dai film. Prendo un po’ da tutto, ma principalmente dalla realtà, la vita vera vissuta.
caterina soffici
Specie nei racconti, più che nei romanzi, all’inizio c’è un’immagine che mi attira e dalla quale mi sento attratta e in cui voglio entrare. Credo che tutto parta da lì».
Il segreto di un buon racconto?
«I racconti sono bestie complicate. Quelli belli, secondo me, devono avere un aspetto un po’ sognante. Mi piace quando hai la sensazione che siano immersi nella vita vera, ma devono anche portarti un po’ in una dimensione fuori dalla realtà. Personalmente mi piacciono le storie dove c’è un momento estremo, mi piace immaginare il momento peggiore della vita di un personaggio».
E il segreto di un buon romanzo?
«Forse tra un paio di mesi darei una risposta diversa, ma al momento per me un buon romanzo è quello che ti prende e ti porta in un mondo fuori dalla realtà, in una dimensione immaginaria alla quale consegno il mio cervello e dico "tienilo per le prossime trecento pagine"».
Hai una routine di scrittura?
«Mi piacerebbe, ma purtroppo no. Sono piena di amici che mettono la sveglia alle 8 del mattino, scrivono per sette ore, poi vanno a fare una corsa. Tutto molto regolare e stabilito. Io sono assolutamente casuale, ma ormai mi sono rassegnata all’idea che sia così: è che non posso scrivere per tutto il tempo, anche le altre cose della giornata sono in un certo senso lavorare. Leggo, cammino, penso, ascolto musica. Ognuna di queste attività mi riempie l’inconscio e sono a modo loro una forma di lavoro, perché lì si formano le immagini e l’immaginazione».
Riesci a leggere altri autori quando scrivi?
«Soprattutto ora, che sto finendo questa prima stesura del prossimo romanzo, leggo molta saggistica o fiction correlata a ciò che sto scrivendo, tipo biografie. Credo che leggere altri romanzi distragga troppo. Ma è anche vero, come dice uno dei miei amici scrittori, che scrivere è sempre un distillato di tutti le letture che si sono fatte nel corso della vita. Ancora una volta, le letture e le riletture - e io sono una che rilegge molto - alimentano l’inconscio».
Dopo un decennio a New York hai deciso di tornare in California. Perché?
«In verità, quando le cose con questa pandemia si saranno sistemate, vorrei dividermi tra le due città, perché amo New York e mi manca. Ma mi manca anche la California, i suoi paesaggi, i panorami, la luce, il sole. E qui c’è quel feeling particolare, anche guidare è una cosa diversa in California. Amo guidare qui».
Vieni da una famiglia molto numerosa. Come è stato crescere in una specie di tribù?
«Caotico. Siamo sette, due fratelli e cinque sorelle. Io sono la seconda. Mio padre viene da una famiglia di origini italiane, loro erano in nove. Per questo ho anche la cittadinanza italiana».
Nel sottofondo dei tuoi racconti ci sono le famiglie, i ritorni a casa per Natale, ma soprattutto le dinamiche all’interno delle convivenze e delle comunità. Anche qui ha lavorato l’inconscio?
«Direi di sì. Le ragazze si svolgeva in una comune hippy, che era a modo suo una sorta di famiglia. In Daddy ci sono i padri di famiglia e uno dei racconti di svolge in una comunità di riabilitazione, dove un gruppo di persone deve interagire in spazi limitati. Mi interessa molto raccontare le dinamiche delle relazioni in queste condizioni di bolle chiuse e sono sicura che derivi proprio dal fatto di essere cresciuta in una famiglia così numerosa».
Da bambina hai anche recitato in spot pubblicitari e in uno sceneggiato televisivo. Volevi fare l’attrice da grande?
«Mi piaceva molto, ma ero negata. Ero solo una bambina noiosa che voleva fare l’attrice. Ma stare sul set di una produzione è stato interessante e mi ha svelato la mia passione per come si creano le storie in un mondo parallelo artificiale. Mi affascinava, trovavo una cosa prodigiosa essere in una stanza e pensare di essere altrove. E sono sicura che questo ha influenzato il mio modo di rapportarmi alla realtà e di come la si può elevare e trasformare in un’altra forma di arte che puoi condividere con altre persone».
Se non fossi diventata scrittrice, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
«Amo la regia. Credo che fare il regista sia uno dei lavori più divertenti in assoluto. Io ho girato un corto, un paio di anni fa. Anche qui credo di non essere affatto portata, ma mi è piaciuto molto. Scrivere è così solitario, sei in una stanza con il tuo computer e solo alla fine c’è un editor a cui parli. In un film sei costretto a interagire con così tante persone di valore e devi vivere nel momento il più possibile. È un’esperienza affascinante».
Per non essere soli in una stanza quando scrivi potresti fare dei figli. Quelli non si formano davanti a una porta chiusa.
Ride
«Sì lo so. Molti amici con figli hanno vissuto dei periodi molto intensi in questa pandemia. Ma per il momento sto bene così».