Se mi guardo indietro, oggi ho 78 anni, registro le svariate attrazioni, curiosità e passioni che hanno attraversato la mia vita: il calcio, la vela, l’arte africana, le avanguardie del Novecento, i tappeti persiani, le icone russe , le stampe popolari, le vedute d’ottica, i vetri di Murano, i vini, la gastronomia. Non mi sono mai tirato indietro. Però credo che questo lungo elenco di cose fatte e di desideri presenti sia riassumibile nella parola cinema, in quel sogno che, bambino piccolissimo, mi visitò come il soffio di una divinità sconosciuta».
Quale è stato il tuo primo film?
«Fu mio padre a portarmi al cinema all’età di quattro anni. Avevo conosciuto quest’uomo solo l’anno prima, quando era tornato dalla prigionia. Vivevamo al Lido di Venezia. Ma nel 1946 mi trasferii per qualche mese a Cuneo in casa della nonna. Una donna che ho molto amato. Mi accompagnò lui e il giorno prima di ripartire mi volle portare al cinema Corso. Era un pomeriggio, ricordo una sala pressoché vuota. E papà che, dopo aver preso i biglietti, mi disse: vedrai qualcosa che ti resterà impressa per tutta la vita. Il film era Il ritratto di Dorian Gray di Albert Lewin».
Una scelta strana per un bambino.
«Indubbiamente inadatto, e ho il sospetto che il film interessasse soprattutto a mio padre. Ciò nonostante restai colpito dal protagonista. Passati molti anni dall’assassinio del pittore che gli ha fatto il ritratto, scopre il quadro e vede un orribile vecchio. A quella scena sobbalzai impaurito, afferrando la mano dello sconosciuto che mi sedeva accanto. Sentii il calore di quella stretta e la paura che andava via. Quel gesto istintivo mi ha insegnato ad avere fiducia negli altri e che dunque non è vero che dagli altri ci si deve aspettare il peggio».
Dove sei nato?
«Casualmente a Cesena. I miei genitori lavoravano entrambi nelle società telefoniche. Mio padre era impiegato a Venezia e la mamma telefonista a Cuneo.
Si conobbero durante una crociera aziendale e si innamorarono per poi sposarsi nel febbraio del 1941.
Pochi giorni di viaggio di nozze papà partì per l’Albania. Fu ferito e mandato in Romagna ad addestrare le reclute. Ecco perché sono nato a Cesena. Nell’estate del 1943 tornò al fronte e venne catturato dopo l’8 settembre, in seguito a un combattimento, con il suo plotone, contro i tedeschi alle Bocche di Cattaro, sulla costa dalmata».
Quando il cinema diventa fondamentale nella tua
vita?
«In un certo senso lo è sempre stato, ma il passaggio da semplice spettatore a esperto ha richiesto anni. Il punto di svolta fu la tesi di laurea all’università di Padova sugli aspetti teorici del cinema italiano degli anni Trenta. Roba un po’ pesantina e certamente ambiziosa. Ma utile perché il mese dopo la mia laurea fu istituita la cattedra di storia e critica del cinema.
Giovanni Calendoli che ne era il titolare mi cooptò subito».
Chi erano i tuoi maestri?
«Sergio Bettini, che fu un originale storico dell’arte, tra l’altro se non ricordo male seguì o discusse la tesi di Massimo Cacciari, e soprattutto Gianfranco Folena.
Molte delle mie letture formative e delle passioni le devo alle loro lezioni e alla capacità di suggerirmi autori mai incontrati al liceo: da Auerbach a Spitzer, da Riegl a Merleau-Ponty, da Saussure a Jakobson a Sklovskij a Wittgenstein».
Era il grande momento dello strutturalismo.
«Si cercava una nuova strada che potesse rispondere alla crisi dell’esistenzialismo. A me, onestamente, non dispiaceva però tornare anche alle cosiddette intelligenze solitarie. E a questo proposito mi capitò di conoscere e apprezzare due maestri ideali come Longhi e Contini».
Maestri di stile. Ma che cos’è lo stile nel cinema?
«A livello dei grandi autori è la riconoscibilità. Per cui non puoi confondere un film di Hitchcock con uno di John Ford; o Kurosawa con Fellini».
Che definizione ti piace del cinema?
«È il massimo testimone oculare del ‘900. Il luogo per eccellenza di memoria della vita materiale e immateriale dell’uomo novecentesco. Nel suo habitat hanno sognato e convissuto pacificamente miliardi di persone. Credo che mai, prima dell’avvento di Internet, uno strumento estetico e comunicativo abbia sviluppato una tale potenza di massa, così profonda ed estensiva, da coinvolgere l’intero pianeta.
Forse il successo è dovuto al fatto che è il solo strumento capace di tenere insieme l’individuo e la folla.
«Effettivamente il cinema ha sempre avuto la capacità di creare dei momenti di assoluta identificazione e comunione dell’individuo con la folla e al tempo stesso di non far perdere al singolo spettatore la sensazione che il cinema si rivolga o interpelli proprio lui. Questa empatia, per cui si passa dalla folla anonima all’individuo e viceversa, è qualcosa di molto novecentesco che la politica ha secondo me ereditato dal cinema».
Nello stesso periodo in cui nasce il cinema si assiste alla scoperta dei raggi X e alla nascita della psicoanalisi. C’è qualcosa che tiene insieme questi tre eventi?
«Il movimento che dall’esterno porta verso l’interno.
In fondo, anche il cinema dopo aver esplorato tutta la superficie terrestre, ha cercato di rappresentare i sogni e i pensieri dell’uomo, provando a radiografarne l’anima».
In fondo, fin dall’inizio il cinema si è mosso su due distinti percorsi: quello ispirato dalla realtà con i Fratelli Lumière e l’altro riferito al sogno con Méliès.
«Tutto sommato sono le due grandi strade complanari da cui se ne sono generate altre, che hanno a che fare con la letteratura, la grande e piccola storia, il melodramma e il mito. Il cinema è stata la più potente macchina mitopoietica del ‘900».
Si serve del mito e a sua volta lo crea.
«Fin quasi dalla nascita attinge alle fonti del mito classico. Lo trasfigura, lo adatta, lo ibrida e lo considera un giacimento inesauribile con cui costruire il monumento del proprio passato. Questo è vero soprattutto per il cinema americano. E tra tutti i generi il western, attraverso la potenza dell’immagine mitologica, ha permesso all’intero paese di riconoscersi nelle radici della propria storia. Ma è evidente che quando si parla del mito è bene introdurre delle distinzioni».
Di che genere?
«Se il mito fornisce gli elementi costitutivi del racconto cinematografico, bisogna anche vedere di quale mito parliamo. C’è il mito fondativo di Nascita di una nazione di Griffith o Casinò di Scorsese; c’è il mito della terra promessa con La carovana dei mormoni di Ford; c’è il mito dell’assedio: Il massacro di Fort Apache e la Battaglia di Alamo; c’è il mito della conquista del vello d’oro: Il mistero del falco, Rapina a mano armata o il primo episodio diGuerre stellari. Vado un po’ a caso, ma il senso è quello: il mito si presenta con più volti».
C’è anche nel cinema europeo un uso del mito?
«Sì, anche se è molto più sotto traccia. Ricordo che Umberto Eco si produsse in un’analisi testuale di
Casablanca di Michael Curtiz, notando la presenza iperbolica del mito classico. In Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta sono stati prodotti circa duecento titoli di argomento mitologico, con al centro Maciste ed Ercole. Quei film avranno una influenza notevole sul cinema americano degli anni Ottanta e Novanta».
Che peso ha avuto complessivamente il cinema italiano sulle altre produzioni?
«Rilevante almeno in tre momenti del Novecento: a cavallo della prima guerra mondiale con i grandi film storico-mitologici e le prime dive: Lydia Borelli e Francesca Bertini; con il neorealismo che ha visto passare per Roma il meridiano del cinema mondiale; infine negli anni Sessanta con una folta schiera di autori guidati da Antonioni e Fellini».
Per restare all’ultimo regista che hai citato, “La dolce vita” creò un mondo inconfondibile, una tradizione e uno stile di vita. Davvero il cinema ha questo potere?
«Certo, soprattutto grazie al divismo. Fin dalla prima guerra mondiale il cinema non solo ha creato modelli di comportamento, modi di vestire, di muoversi, di parlare (il verbo “borelleggiare” nasce in contemporanea con l’ascesa della grande diva del muto), ma ha anche influenzato i modi di pensare, di agire in pubblico e privato, di uomini e donne che avevano una diversissima estrazione sociale.
A parte il grande potere che il cinema ha avuto nell’organizzazione del consenso tra le due guerre (si pensi ai film “totalitari” di Leni Riefenstahl), non si è mai riflettuto abbastanza, per fare un esempio un po’ provocatorio, su come il cinema dei “Pierini” degli anni Settanta e i cine-panettoni siano stati la culla termo-statica da cui è nata una parte della classe politica di questi anni».
Che cosa ti evoca la parola “buio”?
«Se la devo riferire a questi anni che stiamo vivendo niente di buono. D’altro canto, sono affascinato dal buio, tanto che un mio libro si chiama Buio in sala. Da quel momento, in cui bambino spaventato afferro al buio la mano di uno sconosciuto, ho sentito crescere una sorta di quieta ebrezza allo spegnersi delle luci in sala. Una felice sospensione del tempo e un entrare nella dimensione del sogno. È una magia che soltanto la sala cinematografica ti può far vivere».
Per come l’abbiamo conosciuta, la sala sembrerebbe in via d’estinzione.
«Oggi è più a rischio che mai. Ma io credo che una volta finita questa emergenza la gente vorrà tornare a vedere un film in sala per provare nuovamente una quantità di emozioni che nessuna piattaforma può regalarle».
Però, come tu stesso noti, si è passati dall’homo cinematographicus al nativo digitale. Con quali conseguenze?
«Il nativo digitale ha poteri ben superiori rispetto all’altra figura. E questo va comunque visto come un passaggio positivo. L’unica cosa che mi preoccupa è che la perdita della sala corrisponderà alla perdita delle possibilità di sentire, vivere e condividere forti emozioni: divertimenti, piaceri, paure e gioie. Temo perciò che rimpiangeremo quello spazio in cui tutto vibrava all’unisono».
Se un giorno, oltre alla sala, anche il cinema dovesse finire con che cosa lo sostituiremmo?
«Arthur Clarke aveva immaginato dei sistemi di proiezione diretta di film e storie, installati nell’occhio dei singoli individui. Niente più schermi esteriori. Io per il momento mi auguro che i grandi pubblici possano ancora godere a lungo in futuro e in più luoghi del mondo, della proiezione del Monello, diMetropolis, di 2001 Odissea nello spazio, di Miracolo a Milano o Amarcord, perfettamente restaurati e proiettati su un grande schermo di 400 metri quadrati di superficie. Dopotutto, il cinema, pur restando una scelta individuale, è la più grande esperienza collettiva che abbiamo mai conosciuto. Privarcene non solo non è augurabile, ma dannoso per il nostro futuro».