Robinson, 6 febbraio 2021
L’eterno ritorno del Grande Gatsby
Torniamo a distinzioni antiche: dal punto di vista del contenuto Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald – ora in edizione illustrata da Sonia Cucculelli per Neri Pozza – è un romanzo coinvolgente, che combina l’eccitazione del thrilling – con più di un delitto – alle palpitazioni sentimentali proprie del romanzo d’amore. Sentimento, o passione che è messa a tema sia nella versione dell’“amor sacro”, nel caso di Jay Gatsby, il quale è “grande” proprio per la passione ardente che prova per Daisy, la dama bella e impossibile. E nella versione dell’“amor profano” che palpita in forma degradata nel cuore del marito di Daisy, il ricco e spregiudicato Buchanan, il quale “ama” – si fa per dire – una povera donna illusa, infelice, una specie di madame Bovary, che finirà male come la sua antenata. In questo, senz’altro con Fitzgerald siamo già alla pulp fiction, nel senso di Tarantino; e il romanzo è unablack comedy, che dell’amore affronta le pene, la delusione, la “menzogna”. Perché chi ama chi? – è la questione. Questione filosofica, prima che sentimentale, che nel romanzo si solleva e conclude in un finale che, togliendo di mezzo Gatsby e la sua illusione, lascia vincitori la coppia Daisy e Tom Buchanan; movimento della trama, da cui potremmo dedurre che l’homo americanus (e nella categoria è inclusa anche la femmina d’uomo) è incapace di amore, se non dell’amore del denaro, del lusso… E in effetti, nella variante Daisy e Tom, il tipo d’uomo americano è un “immoralista”. O, nelle parole di Fitzgerald – tradotte da Alessandro Fabrizi: «Erano gente sbadata, Tom e Daisy – fracassavano cose e creature e poi si rifugiavano nei loro soldi o nella loro diffusa sbadataggine, o qualunque cosa fosse a tenerli insieme, lasciando agli altri il compito di raccogliere i cocci...». A raccogliere i cocci, c’è appunto Nick Carraway. Il narratore. Il romanzo è il puzzle che Nick compone mettendo insieme i cocci. Naturalmente a modo suo. È il “narratore” la novità – l’invenzione formale, che trasforma il feuilleton d’amore nell’elegia ansiosa, luttuosa del senso che fugge; e ne fa un esemplare icastico di costruzione modernista.
Tornando alla distinzione classica tra forma e contenuto, che invocavo all’inizio, notiamo che nel modo in cui Fitzgerald costruisce l’epopea di quella specie di gangster che è Gatsby – se non proprio un gangster, un ricco magnate di dubbia moralità, il cui guaio è che si innamora di una donna che non è della sua classe sociale; tornando a tale distinzione, dicevo, il nostro scrittore introduce tra se stesso, il personaggio, cioè Gatsby, e il lettore, un narratore; ovvero una complicazione, che fa sì che il libro non sia più di Fitzgerald, ma diventi il libro di Nick. E Nick non è Fitzgerald, per quanto numerose possano essere le schegge di frammenti autobiografici, che vi scorgiamo riflessi. Nick è uno che guarda, osserva, ammira e si innamora – lui, sì, di Gatsby; perché saranno anche losche le trame che intesse per soddisfare i suoi desideri, pure Gasby è uno che “crede”: crede “nella luce verde”, “crede” nel futuro. Sì che nel finale struggente, Nick intona la sua orazione funebre del tycoon, identificando in lui addirittura i pellegrini e padri fondatori, quando giunsero dalla vecchia e corrotta Europa alle rive della nuova e vergine America: «mentre la luna saliva più in alto... percepii la vecchia isola che un tempo era spuntata davanti agli occhi dei marinai olandesi – verde e fresca mammella del nuovo mondo. Alberi scomparsi per fare posto alla casa di Gatsby avevano un tempo assecondato in bisbigli l’ultimo e il più grande di tutti i sogni umani; per un fuggevole e magico momento l’uomo deve avere trattenuto il respiro davanti a questo continente, chiamato a una contemplazione estetica che non capiva né desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con qualcosa di commisurato alla sua capacità di meraviglia. E mentre me ne stavo lì a rimuginare sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby nello scorgere per la prima volta la luce verde in fondo al pontile di Daisy».
Così “delira” poeticamente Nick. O Francis (Fitzgerald)? Notate, comunque, la metafora: la mammella – l’accento è sul seno della madre America, che si è offerta prolifica, generosa… Chi di quel seno e di quel latte si è nutrito, perché è così atrocemente incapace di amare e di vivere? Che cosa è successo all’homo americanus?
Se mi chiedete: potrà mai un romanzo spiegare un Paese? Il grande Gatsby spiega l’America? Bene, io rispondo: sì. E do un consiglio ai lettori: non perdetevi il saggio finale di Tony Tanner – illuminante, toccante: una perla di interpretazione critica, che impreziosisce l’edizione.