Robinson, 6 febbraio 2021
Pianeta Urania
Il primo Urania che ho letto, ormai più di quindici anni fa, è stato Regola per sopravvivere, raccolta di racconti di Richard Matheson. È un volume del 1977, il numero 2 della collana dei “Classici”. Non ricordo dove lo avevo trovato, probabilmente su una bancarella. Di sicuro ad attirarmi, oltre al nome dell’autore, era stata l’illustrazione di copertina firmata dal leggendario Karel Thole. Raffigura il profilo di un individuo seduto davanti alla sua macchina da scrivere al centro di una casa distrutta. All’epoca non ero un lettore di fantascienza, anche se forse sarebbe più esatto dire che non ero un lettore di Urania, ovvero non avevo ancora sviluppato quei sintomi che si impossessano di coloro che entrano in contatto con questi piccoli libri economici dalla natura magnetica e dalle copertine lunari. Sono quasi settant’anni che i libri di Urania infestano i luoghi e le menti di lettori e lettrici italiani. Dal 10 ottobre 1952, giorno in cui nelle edicole approdò il primo dei “Romanzi”, Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke, la collana ha pubblicato più di duemila titoli, tra romanzi, raccolte di racconti e antologie di fantascienza – termine coniato proprio in quell’occasione da Giorgio Monicelli, primo storico curatore – la cui capacità di essere effimeri e insieme di sopravvivere al tempo è stupefacente. In un certo senso si potrebbe dire che, a differenza di altri libri e di altre stirpi editoriali, gli Urania abbiano imparato a rispondere a una biologia propria, strane e umili forme di vita che resistono in condizioni avverse, che si adattano, si nascondono, non si estinguono, infestano, appunto. Non c’è mercatino o libreria dell’usato che non abbia un assortimento Urania, non c’è book crossing in cui non spuntino una copertina di Thole, Caesar, Jacono o dei più recenti Bruno e Brambilla. Non c’è edicola in cui, ostinati, i nuovi numeri di Urania non facciano la loro comparsa per essere acquistati da lettori appassionati o da lettori curiosi, in attesa di unirsi ai loro simili dispersi negli angoli più peregrini.
Di sicuro uno dei meriti della collana sta nell’aver tradotto e pubblicato – a volte con esiti e in forme persino canagliesche, a dire il vero – innumerevoli grandi libri del panorama fantascientifico mondiale, soprattutto anglo-americano ma pure francese, russo, cinese, e di aver lanciato nella mischia alcuni autori italiani che si sono uniti senza timore reverenziale alle schiere dell’invasione degli ultracorpi uranica (o la colonizzazione uranica dello spazio interiore).
Eppure l’impressione è che, al di là delle ragioni puramente letterarie, il vero lavoro di Urania sia stato svolto in maniera sotterranea e in parte inconsapevole, e che somigli più a un’opera di disturbo che al desiderio di una fondazione, un’interferenza, un sabotaggio, un invito alla sopravvivenza e all’immaginazione; un movimento eccentrico, non elitario, che ha coinvolto generazioni di lettori di ogni tipo e di ogni età, cultori o occasionali. In fondo, la letteratura cosiddetta di genere ha sempre covato, nelle sue espressioni meno manieristiche e senza alcun intento programmatico, un potenziale perturbatore, e tra tutti i generi, la fantascienza è stata spesso quella più stigmatizzata, e dunque oggetto di culto e segretezza, proprio perché quella in grado di offrire le prospettive più ampie a chiunque desiderasse addentrarsi in una visione del mondo obliqua. Forse Urania è stata questo: un’idea di editoria industriale da cui è scaturita una civiltà clandestina, una forma avventurosa di circolazione delle storie e del pensiero.
Nel corso dei decenni e attraversata da innumerevoli rivoluzioni interne – a Monicelli sono successi Andreina Negretti, Fruttero & Lucentini, Montanari, il lovecraftiano Giuseppe Lippi, Franco Forte – la collana ha continuato a pubblicare i suoi inafferrabili libri grandangolari («la fantascienza è una narrativa che usa il grandangolo», scrive Valerio Evangelisti), opere a volte pessime, a volte buone, a volte straordinarie – la questione ha un’importanza relativa – che, una volta consegnate al loro destino, hanno saputo trovare la loro dimensione, una dimensione parallela, solo in apparenza marginale. Se per il protagonista di un bellissimo racconto di Michele Mari gli Urania della collezione di suo nonno erano «la parte scura della letteratura», è probabile che per qualcun altro siano stati l’equivalente di pietre luminose nella disperazione, amuleti, pietre incantate, cristalli sognanti, per citare un grande romanzo di Sturgeon apparso proprio in Urania nel 1953 e ripubblicato da Adelphi quarant’anni dopo. Dalle pile polverose delle bancarelle, dalla penombra di un’edicola, le bianche voci degli scrittori e delle scrittrici Urania – voci a volte sottili a volte perentorie – non smettono di chiamarci e di sussurrarci che la regola per sopravvivere esiste.
Ma qual è, alla fine, questa regola? Uno scrittore di nome Shaggley una mattina esce di casa per andare a spedire a una rivista il suo ultimo manoscritto. Il postino che vuota la cassetta è felice di trovarvi una busta che, a ogni evidenza, contiene un nuovo racconto del suo scrittore preferito, così come il redattore con una cicatrice sul volto, che, qualche ora dopo, si ritrova il manoscritto sulla scrivania, in un ufficio in cui un vento proveniente da chissà dove fa svolazzare brandelli di carta bruciata, nel leggere il nome di Shaggley, ha un moto di gioia e si affretta a consegnarlo al tipografo perché lo inserisca nel nuovo numero della rivista. Mentre compone i piombi per la stampa, il tipografo legge il racconto e piange. Quando il numero arriva in edicola, il giornalaio, anche lui sfregiato, divora il racconto, poi vende la rivista al postino che non riesce a resistere e a sua volta si immerge nella lettura lungo la strada di casa. Il racconto è formidabile e gli fa venire voglia di scrivere, ma è così stanco che preferisce andare a dormire. Come spesso gli accade, sogna funghi. Al mattino, mentre fa colazione, si chiede come mai una nube atomica venga chiamata semplicemente “fungo” invece di essere designata con il nome specifico di un fungo tossico, e con questa domanda che gli ronza nel cervello si rimette a scrivere. Il racconto di Matheson finisce. Solo adesso chi legge capisce che Shaggley, il postino, il redattore e tutti gli altri sono la stessa persona, l’unico sopravvissuto a un evento catastrofico, un individuo che prova a conservare in sé una porzione di umanità scomparsa e che scrive racconti fantastici per non impazzire.