ItaliaOggi, 5 febbraio 2021
Pansa fu morso dai giornalisti. Intervista ad Adele Grisendi, suo moglie
«Alle fine della serata, gli dissi: ’Che palle questo Luca Telese. E ha letto questo, e ha visto quell’altro’». E lui mi rispose, secco: ’Adele, ero così anche io’». Ci sono molti giornalisti e giornali, politici e partiti nel libro che Adele Grisendi, da Montecchio Emilia (Re), classe 1947, ha da poco portato in libreria: La mia vita con Giampaolo Pansa (Rizzoli). E d’altra parte giornalismo e politica sono stati l’orizzonte in cui si è iscritta la vita del famoso cronista e scrittore.
Al telefono, la bella voce emiliana e rotonda di Grisendi, si incrina sovente fino al pianto ricordando il compagno di oltre trent’anni, morto poco più di un anno fa. Quella col Pansa fu una storia d’amore vera, con toni alla Prévert, seppure avesse lui superato i 50 e lei i 40. E nel libro c’è anche quella.
Domanda. Grisendi, Pansa grande solitario del giornalismo, però era generoso coi giovani colleghi.
Risposta. Era così. Telese era uno di quelli che Giampaolo seguiva con simpatia: io l’ho conosciuto quando era l’addetto stampa di Diego Novelli al Gruppo della Rete. Venne a casa con un collega e si scofanarono un coniglio intero e poi una padella di polpette. Credevo mangiassero anche il tavolino. Una serata piena di discussioni e di risate.
D. Di qui la sua battuta, dopo il commiato.
R. Alla quale Pansa rispose secco, quasi gelandomi: voleva bene a quei ragazzi. Così come a Marco Damilano, che volle fortemente a L’Espresso o anche Corrado Formigli, ai tempi di Controcorrente su Sky.
D. Nel libro racconta che Telese, violando un po’ le vostre consegne, volle venire a trovarlo al Quisisana, la clinica dove era ricoverato.
R. Sì, me lo trovai in corsia e chiesi a Giampaolo se se la sentiva di vederlo. Acconsentì e fu molto bello. Un ricordo che conserverò per sempre.
D. Nel libro ricorda ancora con amarezza che non vide nessuno dei vertici di Repubblica.
R. Esatto, Damilano venne come amico di lunghissima data e direttore de L’Espresso. Sebastiano Messina, personalmente, come amico storico, ma da largo Fochetti nessuno, ma con quel giornale i rapporti si erano guastati nel tempo.
D. Lei scrive che ci fu una telefonata di Ezio Mauro, editorialista di punta.
R. Sì, certo. Mi disse: «Siamo qui a ricordare Giampaolo; per la mia generazione è stato un maestro». Bene. Ma almeno al Quisisana qualcuno della direzione si poteva affacciare: a quel giornale aveva dedicato 15 anni e al Gruppo ben 30.
D. A guastare le cose ci fu un libro, che Pansa ha scritto: Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer), nel 2003. Il lungo reportage che fa un po’ di luce sulla guerra civile italiana e sui fascisti repubblicani passati per le armi. Lui sapeva che quel libro gli avrebbe fatto terra bruciata attorno?
R. Mi disse: «Adele, perderemo un po’ di amici». Aveva visto giusto. E gli risposi: «Quando cominciamo?».
D. Qualcuno disse che fu un libro opportunistico, che Pansa voleva sfruttare la contingenza politica – il centrodestra al governo – per diventare direttore del Corriere e per guadagnare.
R. Pansa rideva a questa malignità: «Non ho mai voluto comandare, né obbedire», ripeteva. Però anche il tema del momento politico, anche un amico come Formigli, intervistandomi l’altra sera a Piazza Pulita, lo ha ricordato.
D. E invece chi, se non Pansa? Uno che aveva studiato in gioventù e approfonditamente la Resistenza, tanto da farne la sua tesi di laurea e pubblicarla anni dopo per Laterza, uno con un lungo pedigree di giornalista «di sinistra», uno che aveva lasciato Panorama perché arrivava Silvio Berlusconi...
R. Esattamente. Pansa aveva un profilo e una storia personali che lo mettevano al riparo da ogni sospetto di secondo fine. O avrebbero dovuto. Invece…
D. Invece?
R. Repubblica aveva accolto bene il libro precedente, I figli dell’Aquila (Sperling & Kupfer), nel senso che Eugenio Scalfari affidò alla brava Simonetta Fiori un dibattito con lui e il politologo Marco Tarchi, uno studioso che da giovane aveva militato nell’ultra-destra. Insomma, c’era la voglia di approfondire.
D. Come, anni prima, Scalfari aveva chiesto a Pansa e Giorgio Bocca di dialogare sul tema del terrorismo.
R. Sì, un faccia a faccia memorabile, perché Giampaolo era molto chiaro sulle origini di sinistra mentre Bocca era, allora, ancora molto dubbioso su chi ci fosse dietro le Brigate Rosse. Poi cambiò strada anche lui e forse quel dibattito contribuì. Furbo Scalfari a dirimere in quel modo le polemiche sorte fra queste due grandi firme del giornale.
D. Come cambiò, invece, la linea di Repubblica, allora?
R. Successe che Sandro Curzi, allora direttore dei Tg3, cominciò una dura campagna contro quel libro, accusandolo del peggior revisionismo. Un can can sostenuto da ambienti della storiografia, piemontese e ortodossa, e anche il giornale di Scalfari finì per accodarsi.
D. Lei scrive del suo ritorno a Repubblica, su insistenza di Ezio Mauro, che lo mandò a seguire il congresso del Pds. Un racconto di un clima non proprio piacevole.
R. Ci fu solo Filippo Ceccarelli arrivato a Rep dal Corriere che venne a salutarlo fin sulla tribuna del Palazzone, dove eravamo appollaiati. A colpirlo fu la freddezza di Concita De Gregorio. Quando poi ci spostammo in redazione, nella nuova sede sulla Cristoforo Colombo, il gelo si tagliava col coltello. «Facciamo alla svelta, Adele», mi disse, «io qui non tornerò più». Mantenne la parola.
D. Qual è stato il giornale dove, secondo lei, si trovò meglio?
R. Senza dubbio L’Espresso. Quello di Claudio Rinaldi, ovviamente.
D. Sì con Daniela Hamaui, come lei scrive, non andò benissimo. Ma parliamo della direzione Rinaldi.
R. Era un gruppo affiatatissimo: con Rinaldi, Pansa era stato a Panorama. Se ne erano andati dopo che il Cavaliere aveva vinto la battaglia di Segrate. Rinaldi convinse Giampaolo a mettere Scalfari davanti al fatto compiuto, perché sicuramente si sarebbe opposto. Al settimanale poi c’erano Bruno Manfellotto, Toni Pinna, Antonio Padellaro, gente che lavorava di lena ma che sapeva tenere un clima positivo, quasi guascone. Si rideva e si scherzava.
D. Infatti lei racconta che in Via Po, la sede del settimanale a Roma, lei andava volentieri, mentre a Piazza Indipendenza, storica sede di Repubblica nella Capitale, meno.
R. È vero. In via Po non avevo alcuna soggezione: ti accoglievano tutti cordialmente, c’era un clima informale, di gran compagnoneria. A Repubblica mi aspettavo sempre di incontrare Eugenio Scalfari, insomma non ero a mio agio. Ma forse era colpa mia.
D. De L’Espresso, Pansa era diventato condirettore e tale rimase con Anselmi e poi con Hamaui quando prese le redini del giornale, proveniente da D di Repubblica.
R. Con Pansa non andò benissimo da subito. Il problema non credo fosse lui, ma che non gradisse avere un condirettore. Mi spiego così il non averlo coinvolto nel progetto grafico che revisionava il settimanale.
D. Beh, ne aveva una grande competenza…
R. Sì, ma Giampaolo, in qualunque giornale avesse lavorato, ha sempre avuto ben chiaro che a decidere era soltanto il direttore e che la sua opinione poteva contare zero. Visse quella vicenda come uno sgarbo inutile. Se ne accorse lei stessa, scusandosene con una lettera.
D. Il rapporto però non fu felice mai.
R. Beh insomma, Hamaui forse aveva in testa un giornalismo diverso. La sera che morì Marco Biagi, ucciso a Bologna dalle Br, appena saputo, avevo riaccompagnato Giampaolo in via Po e non l’ho vista. Lei ne aveva tutto il diritto, sia chiaro, ma io quell’assenza la considero tuttora incomprensibile. Le Br hanno insanguinato l’Italia per anni …
D. La convivenza con Hamaui, lei scrive, non fu semplice.
R. Beh insomma, talvolta i Bestiari, i ritratti di Pansa, non le piacevano. E allora il buon Ramenghi intavolava con Giampaolo lunghe conversazioni, per smussare, cambiare una parola, un termine. A volte chiedeva di cambiare argomento. Succedeva sempre più spesso e diventò sempre più snervante. Vacillò anche l’amicizia fra loro due, senza rompersi per fortuna. Il passaggio al Riformista di Antonio Polito fu una vera liberazione.
D. Redazione giovane…
R. Che a Pansa piaceva molto: Stefano Feltri, oggi direttore de Il Domani, Tonia Mastrobuoni, oggi inviata di Repubblica in Germania, Stefano Cappellini, caporedattore dello stesso giornale.
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D. Torniamo alle polemiche: Pansa un po’ amava lo scontro, diciamo la verità.
R. Certamente lo prediligeva al silenzio. Spesso mi diceva: «Adele, una ne prendo e una ne do». Oppure ripeteva, mostrando tutta la sua tigna: «Mi attaccano? E io ’insistico’». Lo feriva invece la terra bruciata, come quella che gli fecero intorno nel 2006 dopo La grande bugia e I gendarmi della memoria (Sperling&Kupfer), sulla sinistra e il sangue dei vinti. Ne derivò l’isolamento da parte del giornalismo di sinistra di cui era stato un protagonista.
D. Paradossalmente se la son presa con lui più i giornalisti dei politici…
R. Glielo posso confermare. Romano Prodi, anche lui un bersaglio dei suoi Bestiari, quando Giampaolo è mancato mi ha scritto cose molto belle: «Pansa aveva previsto e compreso quello che sarebbe successo in Italia». E anche Walter Veltroni, un altro spesso criticato, è stato sempre molto cordiale.
D. A cui Pansa dedicò un Bestiario feroce, definendolo «un perdente di successo».
R. Già, eppure Veltroni era uno che, quando capitava di incrociarlo, veniva a salutare per primo.
D. E con Massimo D’Alema come andava?
R. Un rapporto sempre molto animato. Quando D’Alema diventò segretario del Pds, lo cercò alle Botteghe Oscure per una breve telefonata: «Guardati dal tuo nemico peggiore: il tuo carattere». D’Alema, che pure non le mandava a dire, fu sempre molto corretto con lui.
D. Beh Pansa era quello che fece a un altro segretario, Enrico Berlinguer, un’intervista storica.
R. Quella per il Corriere, in cui il segretario del Pci disse di sentirsi più al sicuro in un Paese della Nato: il primo strappo con l’Urss. Pansa la concordò con Tonino Tatò, il segretario particolare. Poi tornò al Bottegone per le correzioni del segretario. E Berlinguer cassò alcuni passaggi.
D. E Pansa mollò il colpo?
R. Sì, ci provò a discuterne ma Re Enrico, come lo chiamava lui, fu inamovibile: «Pansa, lei ha già avuto tanto».