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 2021  febbraio 05 Venerdì calendario

Alberto Genovese e le ombre su Milano

Città bianca, città oscura. Quando Alberto Genovese apre le porte del suo appartamento per una festa, il 10 ottobre 2020, il cielo di Milano è oltre il crepuscolo. Sono passate le 20.30 e tutto di questa metropoli sta per compiersi. La vitalità, la leggerezza brutale, l’opacità degli uomini e delle loro leggi ballerine dopo il traffico del giorno. A due passi dal Duomo, nella terrazza di Genovese chiamata Sentimento, va in scena il teatro di un capoluogo da bere che non c’è più e che c’è ancora. Il risveglio di un’epoca è nel grido di una ragazza di diciotto anni che uscirà da quell’appartamento in stato di choc venti ore dopo esserci entrata: fermerà la polizia e si farà portare al pronto soccorso della clinica Mangiagalli dove verrà dimessa tre giorni dopo con una prognosi di un mese. Il passo successivo è la denuncia contro Genovese che porterà a capi di imputazione per stupro, tortura, sequestro di persona, cessione di stupefacenti e lesioni. I fatti sono all’ordine della magistratura, le ferite mai del tutto. Per la presunta vittima rimane il fardello di un dopo-Cristo: la diciottenne è un’altra rispetto a qualche ora prima. Racconta di aver assunto droghe, racconta di essersi trovata in camera con Genovese sotto prevaricazione, racconta di una violenza incessante. Da qui, da questa Milano d’ombre che diventa pece, si consuma una giovinezza. La città ha guardato, la città è testimone. 

Dal Nepentha a Piazza Santa Maria Beltrade
Gli occhi sono quelli degli Ottanta quando con l’imbrunire qualcosa rischiava sempre di sprigionarsi: la city da bere, le anime inquiete da sfamare. Per Genovese e la sua terrazza il Duomo è a due passi, come nel delitto del 26 giugno 1984, quando Terry Broome, un’aspirante modella americana ventiseienne, uccide con una pistola calibro 38 Francesco D’Alessio. Il finale potrebbe essere certamente diverso, non il midollo di questa città elettrica che sembra allacciare destini e luoghi. Il Nepentha, per esempio, locale notturno in piazza Diaz dove Broome comincia quella serata maledetta. Vicinissimo c’è Piazza Santa Maria Beltrade, indirizzo di casa di Alberto Genovese e del suo attico e superattico. Trecento metri e trentasei anni di distanza. E lo stesso «cuore della terra»: così Scott Fitzgerald chiamò l’incantesimo dei quartieri nell’emanare un preciso codice emotivo. Vale anche per le fondamenta sotto la cattedrale di Milano, cerchia eterea e viscerale dell’urbe, che resse terremoti controversi e genera energie sacre e profane. Osmosi, coincidenze, sostanze fitzgeraldiane: eppure qualcosa è in continua frizione in questo punto centralissimo della mappa dove gli affari pullulano di giorno e si scaricano di notte, allo stesso modo di un carnevale che riverbera virulenze sopite. Denaro e malpotere, ascese e decadenza. Alberto Genovese, che fece fortuna grazie all’invettiva imprenditoriale riversata sulla new economy e si ritrovò con più di un pugno di dollari e una noia cronica da gestire. Il curriculum ci dice che è laureato in economia aziendale alla Bocconi, un master alla Harvard Business School, circa duecento milioni tra guadagni e richieste di nuovi investimenti. Su questa identità professionale, dopo l’ipotetico crimine, la stampa ha eretto intorno al suo nome epiteti di gloria pregressa («mago delle startup», «genio», «businessman di successo»), come se un lustro passato lo giustificasse. Invece dopo la vendita anni prima di Facile.it, creatura che gli fruttò la ricchezza, comincia il periodo del vuoto e delle abbuffate. Quarantuno anni e fino a centocinquantamila euro spesi per una festa. L’altro Alberto Genovese.

Pippa, pippa: il corpo sull’altare dell’esaltazione
Nell’interrogatorio che seguì la notte infernale di ottobre, Genovese ammise che non usava un computer per lavoro da quando mise in tasca il gruzzolo e si espose al baratro. Quale baratro? Ibiza, Formentera, feste, aerei privati, l’appartamento in Santa Maria Beltrade che elesse a quartier generale del suo girotondo. E la droga, lo stesso carburante che fu l’esclamativo delle nottate di Piazza Diaz decenni prima nella Milano da bere. Sulla Terrazza Sentimento le testimonianze rivelano di piatti con tre tipi stupefacenti: cocaina, metanfetamina e la 2CB, bamba rosa da quattromila euro al grammo, offerta come arachidi tra musica e balli. Si parla anche di ketamina e soprattutto di Ghb, il farmaco «dello stupro» che se assunto a dosi elevate cancella la memoria e rende inerme la persona all’assalto del carnefice. Secondo gli inquirenti Genovese in quelle venti ore abusò della ragazza somministrando ripetutamente droghe fino a renderla una «bambola di pezza». Al risveglio, in uno dei bagni della casa, lei si sarebbe ritrovata livida e scaraventata in un oblio sospettoso. Cosa mi è successo? Cosa mi è stato fatto? I segni sul corpo sono cicatrici, assieme agli sprazzi di coscienza che riportano l’incubo a galla. La ragazza ha lembi di memoria in cui rivede Genovese sopra di lei, i polsi bloccati. Droga e altra droga. Il gip scriverà che «Genovese ha agito prescindendo dal consenso della vittima, palesemente non cosciente per circa metà delle 24 ore trascorse con lui, tanto da sembrare in alcuni frangenti un corpo privo di vita, spostato, rimosso, posizionato, adagiato, rivoltato, abusato». L’altare dell’esaltazione, per stordire sé stessi e innescare la prevaricazione: ragazze giovanissime, condotte al piano di sotto nella camera da letto vegliata da un buttafuori? «Pippa, pippa», è stata l’esortazione di Genovese alla ragazza nella violenza, secondo la testimonianza che scoperchiò il vaso di Pandora. Era una delle ossessioni di Francesco D’Alessio, il playboy ricchissimo che perseguiterà Broome prima di essere ammazzato dalla modella stessa all’alba di quel 26 giugno. La polvere bianca nutre i rampolli, un circolo sfrontato che regala duecentomila lire di dose a chi non può permetterselo, alimentando l’opacità della notte. 
Camicie sbottonate, balli scatenati, mani ai cocktail. E quel moto a luogo spasmodico: le notti 80 erano lo spostamento eterno da un luogo all’altro, spiriti convulsi, carichi, dal Nepentha agli altri locali di Diaz, e poi Moscova e Brera, i bar di Porta Venezia, fino all’ultimo lido: gli appartamenti raggiunti all’alba. Si finiva a casa di qualcuno che apriva un rifugio per chiudere in dolcezza lo sfarzo. Sesso, un’ultima vertigine, poi accoccolarsi sui divani. Quasi mezzo secolo dopo rimangono gli attici: lassù, vista Duomo. Ma nessuno spostamento: qui si apre la serata e qui si chiude. Solo rendez-vous selezionati e organizzati, anche all’ultimo. Come se la città non seguisse più le scorribande nelle sue strade. Genovese invita e lo fa anche attraverso i fidati che inviano messaggi a ragazze e vip, belle presenze e aure rassicuranti. Dal momento che presenziava quel personaggio tutto sembrava garantito e ci si poteva divertire: è il pensiero che dichiarò la diciottenne. Il 10 ottobre entrò alla festa assieme ad altre due amiche già abituate a scintillii simili. Ma quella sera pare che da subito Genovese cominci a seguire le tre donne insistentemente. La stessa ossessione che segnò i frangenti dell’epilogo di Francesco D’Alessio: Broome non gli si era concessa e lui non si dava pace. Diventò sfrontato, fuori controllo, macerò nel livore finché al Nepentha avviene una prima resa dei conti. Lei è con il fidanzato, lui la segue in bagno e tenta ancora un affronto. Terry riesce a divincolarsi e continua la notte da un locale all’altro, finché sottrae la Smith&Wesson al fidanzato e si dirige in casa di D’Alessio in Corso Magenta. È già prima mattina, suona il campanello, si fa aprire per intimargli di smettere di tormentarla una volta per tutte. Forse si versano dell’altro bourbon, altra coca. Poi la colluttazione e i cinque colpi di pistola. L’epilogo di una trama che inizia mesi indietro, allo stesso modo della vicenda Genovese, iniziata già prima di quella festa di ottobre.

Le pupille al cielo di Giacobbe nell’attesa dell’abisso
A un certo punto Hemingway disse che bisognava rovistare nei verbi per trovare la voce di un’epoca: saziare è il paradigma di Milano che cuce gli Ottanta a noi, due ere slegate dalle rivoluzioni che una città si è guadagnata. Lo spirito europeo, l’Expo, sindaci competenti, l’accoglienza a un’integrazione culturale preziosa. Ma il cuore della terra non si estingue mai e rivela la voracità dell’affamarsi, e della combustione. Giorni dopo l’arresto di Genovese cominciano le dichiarazioni dei vicini di casa dell’ex imprenditore. Tutti confessano di essere stati angosciati per quell’ultimo piano che teneva svegli: ciascuno di loro ha sopportato, ha allertato le forze dell’ordine, qualcuno ha parlato con Genovese che in un primo momento si è dimostrato gentile e poi ha smesso di rispondere al telefono. Ma il dettaglio che cerchiamo è in una coppia che abita qualche appartamento sotto e che al tempo aspettava un bambino: sono in pena per l’imprevedibilità di quei festini. L’effetto arriva sempre nel tardo pomeriggio, quando percepiscono l’attesa di sapere se ci sarà un bagordo dell’ex imprenditore e dei suoi amici. L’unico modo per capirlo è rientrare a casa, dopo il lavoro, e alzare gli occhi verso l’attico con il terrore di vedere tutte le luci accese. Quel segnale. Le pupille sollevate alla Terrazza Sentimento: una città che attende l’abisso. Milano vede, di nuovo. Riconosce l’umanità che la rimpolpa di epoca in epoca. Quelle luminarie accese per una festa e il terrore che scende su chi le osserva. Sentirsi in lotta contro qualcuno che impone da un ultimo piano. Il volume troppo alto, il vociare, il trambusto, lottare contro una vitalità illegittima che corre lungo i muri. È un corpo a corpo che spinge a conoscere una parte di noi stessi a cui non eravamo pronti. Come il Giacobbe biblico che in una notte come tante si alza dal suo giaciglio e ha il sentore di raggiungere il fiume con tutto ciò che possiede. Non sa perché ma è conscio che deve farlo. Si mette in cammino con la famiglia e quando arriva al fiume chiede a mogli e figli di passare sull’altra sponda. Lui rimane al di qua, perché percepisce qualcosa che riguarda solo sé. Aspetta finché non compare una creatura che lo costringe al combattimento. È un lottare durissimo, con la creatura che non riesce a sopraffarlo ma soltanto a ferirlo all’anca. Giacobbe zoppica e quello è il segno di essersi spinto oltre. Il fiume lo veglia in una sorte di battesimo, prima che la notte si esaurisca, ribattezzandolo dolorosamente in una nuova anima. La città nella città, un regno chiamato Sentimento Demoni e lotte. Non ci sarà solo la denuncia della diciottenne. Ne verranno fuori altre. Ma in quel primo grido di Piazza Santa Maria Beltrade risiede un’immagine che ha la voce di tutte: le videocamere di sorveglianza mostrerebbero la ragazza che esce dall’appartamento con vestiti non suoi, una sola scarpa. Si racconta che Genovese le lanciò qualcosa dalla finestra quando lei era già in strada, forse la scarpa mancante, forse cento euro per sfregio. In quel momento la ragazza potrebbe essere già vittima da ore, presto lo diventerà una seconda volta per insinuazioni che le piomberanno addosso: se ha accettato la droga, è chiaro che si è messa in una situazione compromettente. Se era in una data situazione, non poteva non sapere. Se frequentava certe feste, non si deve stupire del risultato. Esattamente quel tipo di allusione: se una donna va in giro a correre al parco alle sei della sera in pantaloncini è normale che si esponga. Gravissimo. La violenza così finisce per non essere più violenza. E si va in una logica ancora più inaccettabile: la vittima, pur essendo vittima, non ha calcolato il rischio. Non ha calcolato che esistono realtà, come lassù in Beltrade, con leggi proprie e silenti. Città nelle città. Lassù, nel regno di Genovese, dove una terrazza è chiamata Sentimento. Un inno alla felicità, all’ebrezza, alle passioni. Alla libertà. E libertà sembra essere il grande imperativo da difendere rispetto al fuori. Ignorare le proteste dei vicini, modificare l’ultima parte della scalinata condominiale per ottenere una zona delimitata di accesso, installare un circuito di videosorveglianza interno. L’arma a doppio taglio di questa storia. Dopo quella notte di ottobre, Genovese tentò di far sparire le immagini delle diciannove telecamere puntate su ogni angolo dell’abitazione. Saranno recuperate e acquisite dagli inquirenti. Temeva i movimenti, i moti a luogo, la mappa personale che riperimetrava la sua città privata. Terry Broome nella sua notte disegnò un’area tra Piazza Diaz e Brera e Corso Magenta, Alberto Genovese siglerà direzioni brevi dal superattico all’attico con la zona di casa privata. Quanti metri percorsi? Una decina al massimo? Dieci metri per la possibile discesa agli inferi. E per un epilogo.

Testimoni e “prostitute” nel walzer delle allusioni 
L’epilogo: nel 1984 fu un salotto per Terry Broome e un omicidio, nel 2020 potrebbe essere una camera da letto a casa Genovese e uno stupro. C’è anche un coro di presenze intorno su cui gli inquirenti vegliano o hanno vegliato. Nel caso di Terry Broome mancarono i testimoni oculari: l’aspirante modella prese la Smith&Wesson dal fidanzato e si diresse in Corso Magenta. Quando entrò nella scena del delitto D’Alessio è in compagnia del proprietario di casa, Carlo Cabassi, e di una modella americana arrivata da poco in Italia, Laurie Marie Roiko. Nessuno di loro vide. Ascoltarono gli spari, ma non videro. Per Genovese la lista è al vaglio: c’era un buttafuori che vigilava la stanza da letto dove l’ex imprenditore portò la ragazza. C’era un cerchio magico che mandava inviti e gestiva il carnevale. C’era stata Sarah Borruso, compagna di Genovese: non quella notte, ma in altri due casi di denuncia di stupro rivolte contro il fidanzato. Lei dichiara che era Genovese a chiederle rapporti a tre, sesso estremo e droghe, facendola trovare «nelle situazioni». La causa era la personalità fortissima dell’uomo, secondo Borruso, e un ricatto d’amore per cui il suo Alberto la minacciava di tornare con la ex fidanzata che lo assecondava meglio. L’amore, insomma. Il circolo vizioso delle passioni e un carrozzone che lascia Milano in base alle stagioni. D’estate il regno è Ibiza, dove Genovese e Borruso gozzovigliavano e dove c’è un nuovo capo di imputazione per violenza su una ventitreenne. La ragazza che ha esposto denuncia era con Genovese e Sarah nella villa affittata. Borruso respinge le accuse dicendo che la ragazza sapeva di passare giorni di divertimento a drogarsi con la coppia. Tutti erano pienamente consenzienti, tutti, sempre, a parte Genovese che una volta arrestato per Terrazza Sentimento ammise di essere dipendente dalla droga e che non si rendeva conto di quello che stava facendo. Si domandò come mai nessuno l’avesse mai portato da un medico, lui che soffriva di «allucinazioni uditive», di «confusione nel ricordare». Imboccò la strada dell’autogiustificazione, aggiungendo di essere stato circondato da persone interessate solo alla sua fortuna e da «prostitute» «Prostitute» è il suono dell’allusione, ancora una volta, verso le vittime. Verso una loro presunta responsabilità, nel tentativo di finire nei paraggi delle parti lese. Basta questo per spostare l’inclinazione di un meccanismo narrativo? Davvero basterebbe insinuare, per esempio, che la diciottenne di quella festa di ottobre potrebbe essere stata una escort, e che tutto sarebbe avvenuto per soldi? È il ribaltamento che tentò Harvey Weinstein quando disse che le sue vittime soffrivano di memorie nebulose e inaffidabili rispetto alla verità. Meschinità da abuser, e manipolazione del linguaggio. Tanto per essere chiari, oggi: stupro significa stupro, abuser significa abuser, violenza significa violenza, survivor significa survivor. 

La Milano dei demoni, e della giustizia futura
Terry Broome subì davvero ripetute insistenze da D’Alessio. Ebbe una parte di opinione pubblica dalla sua parte e attenuanti in fase processuale, fu condannata a dodici anni di carcere in appello. In Terrazza Sentimento il copione potrebbe avere avuto una sola direzione: Genovese riversa l’ultimo sé stesso – droga, camera da letto, buttafuori, venti ore di accanimento su un’innocente –, e niente altro. Nell’attesa del verdetto finale. Attese di verdetti: Alberto Genovese è a San Vittore. Intanto fioccano nuove rivelazioni, la trentina di conti correnti esteri a cui attingeva, altre cinque ragazze che si aggiungono alla denuncia della diciottenne, la ferita allargata di quest’ultima per una ulteriore macchina del fango subita («Con tutto quello che sta venendo fuori, mi chiedo se quella sera non sarebbe stato meglio tornare a casa in silenzio»). Altro si accumulerà in questa lotta dove Milano è l’altra ferita. Perché una città è sempre le sue vittime. E la futura giustizia. Allora vale la pena evocare Shirley Jackson, scrittrice amatissima per romanzi e racconti dove gli esseri umani si erodono tra loro, avvolti da luoghi che ne assorbono la tragedia. Jackson è celebre per dare alla normalità un’incombenza di pericolo, lasciando le donne e gli uomini al cospetto della loro natura. Diceva che il segreto di una storia nera è sempre nei luoghi luminosi in cui è immersa. Case, villaggi, piazze, stanze, rifugi in cui protagonisti credono di sottrarsi ai loro demoni. «Ma un demone cova sempre», ripeteva Jackson. Quanto covava il demone di Alberto Genovese prima della notte di ottobre, a terrazza Sentimento. Come covava. In lui, e in questa Milano bianca e di nuovo oscura.