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 2021  febbraio 05 Venerdì calendario

Özil ha scelto Erdogan

Martedì scorso Mesut Özil è tornato a giocare a calcio dopo 332 giorni, e quasi a sottolineare la lunghezza della sua assenza l’ha fatto ad Antiochia, una delle grandi capitali dell’antichità. È entrato in campo al minuto 77 di una trasferta delicata della sua nuova squadra, il Fenerbahçe, perché ai confini della Siria, lì dove l’Hatayspor aspetta i suoi rivali, non vince quasi nessuno. Özil si è infilato la maglietta seguendo con occhi improvvisamente accesi la matita dell’allenatore, che gli stava indicando su un foglio la posizione in campo, ma è durato un attimo: il disegnino a un campione del mondo anche no. Mesut è entrato nell’aria tiepida di una primavera incipiente, ha alzato lo sguardo verso la corsa del terzino Kadioglou e l’ha premiata con un tocco di piatto sinistro che ha fatto cantare il pallone. Il compagno ha crossato a centro area e Jean-Claude Billong, difensore francese dell’Hatayspor, ha deviato nella propria porta con la goffa rassegnazione di chi, sentendosi perduto, abbrevia la sofferenza. Allora tutti i compagni sono corsi da Özil, che a essere onesti c’entrava poco, e l’hanno abbracciato come a dirgli benvenuto, pare che qui in Turchia gli avversari facciano autogol soltanto a vederti. Dalla panchina, sostituito all’intervallo per una botta al ginocchio, il brasiliano Luiz Gustavo – vecchia pellaccia di mille campionati – applaudiva con l’aria di chi la sa lunga. L’8 luglio 2014, nello stadio Mineirao di Belo Horizonte, Luiz e Mesut ascoltarono gli inni prima di Brasile- Germania, semifinale del Mondiale. Per 90 minuti avrebbero dovuto combattere più o meno sulle stesse zolle, il mediano sulle tracce del trequartista, invece non si sfiorarono nemmeno: Özil lieve come l’aria a dirigere con estro demoniaco la filarmonica di Joachim Löw, Luiz incatenato nella discesa di un pozzo infinito. L’1-7 del Mineirazo, la sconfitta più umiliante della storia. Chissà cosa provano veramente, sette anni dopo, a essere compagni.
È possibile che domani sera, dopo i 18 minuti di Antiochia, il tecnico Erol Bulut faccia partire Özil titolare. Sarebbe logico entrare dopo un tempo, se il calendario non proponesse Fenerbahçe-Galatasaray, il derby intercontinentale – domani si gioca in Asia, dopo l’andata in Europa – che storicamente si inserisce al secondo posto dei cataclismi naturali, diciamo tra Boca-River (il primo) e la fine del mondo (il terzo), e che la pandemia non ha certo raffreddato. Se la maglietta giallonera di Özil è ovviamente la più venduta fra i tifosi del Fener – per ingaggiarlo hanno fatto pure una colletta via sms – nelle botteghe del Gran Bazaar va sempre forte la T-shirt con la foto stampata di Graeme Souness mentre pianta un bandierone del Galatasaray al centro del campo del Fenerbahçe. Successe nel 1996 dopo un derby particolarmente bollente, il manager scozzese guadagnò a stento gli spogliatoi, salvato dagli scudi dei poliziotti schierati a testuggine come opliti – l’intero stadio traboccò dalle tribune al campo per ucciderlo o peggio – quella volta i tifosi del Galatasaray tornarono in Europa con l’agio dei guerrieri della notte nell’omonimo film. Vuoi fare a meno in quest’ambientino del più grande dei campioni dimenticati?
Özil ha da poco compiuto 32 anni e il suo piede sinistro resta un violino, ma dal giorno in cui pensò bene di avvicinarsi a Erdogan – che nel 2019 gli ha fatto pure da testimone di nozze – le cose gli sono girate sempre peggio. Nato a Gelsenkirchen, dove i nonni erano emigrati dalla Turchia, Mesut è stato il faro del Werder Brema, del Real Madrid e, nelle ultime sette stagioni, dell’Arsenal: un magnifico centrocampista offensivo, uno di quei visionari che scorgono linee di passaggio larghe come autostrade lì dove il giocatore normale intuisce al massimo una mulattiera. Pilastro della Germania multietnica che arriva terza al Mondiale 2010 e quattro anni dopo vince il titolo, Özil fallisce (come tutti) il terzo colpo, nel 2018 in Russia, dove i tedeschi vengono eliminati nel girone. Ma per lui la delusione diventa una gogna. “Torna nel tuo Paese, fottiti, maiale turco”: non solo insulti social, ma gente all’aeroporto schiumante rabbia anti-immigrati. La stessa che quattro anni prima, felice e progressista, inneggiava al mosaico vincente. Özil annuncia l’addio alla Germania.
Il graduale declino diventa un precipizio nel dicembre del 2019, quando un tweet di sostegno alla causa degli uiguri – una minoranza turco-musulmana nello Xinjiang vessata da Pechino – gli costa una punizione simbolica ma feroce come la cancellazione dell’avatar dalla versione cinese di un famoso videogioco, e la muta ostilità dell’Arsenal e della stessa Premier, che sostengono Black Lives Matter, aderiscono alle proteste di Aubameyang contro la brutalità della polizia nigeriana, ma non spendono mezza parola per la battaglia di Özil. Mesut viene percepito come un portatore di problemi fuori dal campo superiori alle soluzioni che sa trovarvi dentro, e “cancellato” come il suo avatar, complice anche la polemica per la mancata adesione al taglio del 12.5 per cento all’ingaggio. Anche qui la storia è complessa, perché Özil aveva chiesto – senza ottenerla – la certezza che anche la proprietà del club si facesse carico dei danni della pandemia. Messo fuori rosa, si era concesso la trollata di pagare lo stipendio a Jerry Quy, il tifoso che da 27 anni indossava il costume da dinosauro durante le gare, mascotte molto popolare, e che il club aveva licenziato assieme ad altri 54 dipendenti nella ristrutturazione post- Covid. Un gesto di astuta generosità. In estate l’Arsenal ha offerto Özil ovunque, promettendo di farsi carico di due terzi del suo stipendio da 20 milioni, ma alla fine – a cinque mesi dalla scadenza – l’ha dovuto dare gratis al Fenerbahçe, che di milioni gliene pagherà 4, e va bene così. È in testa alla classifica con tre punti su Galatasaray e Besiktas, chi vince torna in Champions e le luci del Bosforo sono una bellezza. Dai nonni al nipote, un lungo ritorno a casa.