La Stampa, 4 febbraio 2021
Dragonomics
Conoscenza, coraggio, umiltà. Le prime tre parole chiave dell’alfabeto di Mario Draghi sono fra le ultime che pronuncia come presidente della Bce, le utilizza per illustrare le virtù richieste a chi deve prendere decisioni. Corre l’ottobre 2019 e, in una Lectio Magistralis alla Cattolica, il banchiere centrale argomenta che la cognizione delle cose amplia le prospettive e permette di aggirare l’abitudine nella politica dei nostri tempi, quella di «seguire l’istinto piuttosto che la ragione, il che non serve necessariamente l’interesse pubblico». E’ un manifesto economico, sociale e politico, il primo capitolo della filosofia possibile dei Dragonomics. Ora, ammette, «la rilevanza della conoscenza per il policy-making è messa in discussione». E questa non gli pare affatto una buona notizia.
Stabilito «nella misura del possibile» come stanno i fatti, insiste Draghi, al momento della decisione «si deve far leva sul coraggio», perché le soluzioni non garantite esigono energia per vincere l’inerzia che può parere un buon riparo. Certo, concede il professore romano, «anche il non agire rappresenta una risoluzione». Eppure, restar fermi comporta un’accettazione dello status quo, ed è un disastro se lo scenario è inquinato dall’incertezza.
Ritiene, l’allora presidente della Bce, che l’istituzione sia stata coraggiosa nell’architettare misure straordinarie di acquisto dei titoli sovrani per difendere la stabilità monetaria – cioè gli obiettivi di controllo dell’inflazione. Ne occorreva, di coraggio, per disegnare strumenti atipici in una crisi senza pari. E ne serviva per tenere testa al fuoco di fila dei conservatori dell’anti-debito tedeschi. La storia successiva assicura che è una mossa di cui non lamentarsi. Anzi.
L’umiltà entra in gioco qui. Perché, ragiona Draghi, «essa discende dalla consapevolezza che il potere e la responsabilità del servitore pubblico non sono illimitati, ma derivano dal mandato conferito che guida le sue decisioni e pone limiti alla sua azione».
Come numero uno dell’Eurotower, riflette che «un mandato politico è essenziale affinché l’indipendenza della banca centrale sia compatibile con la democrazia». Sfida chi lo accusa d’essere un eurocrate che si diverte a giocare coi destini del continente, sentendosi invece esecutore di indirizzi democratici, ottenuti da governi votati da parlamenti eletti dai cittadini. La logica è lineare: «Devi dimostrare di meritare il posto ogni giorno».
Responsabilità e interesse pubblico sono i concetti numero quattro e cinque di un eventuale vocabolario universale di Mario Draghi e conducono al sesto, la consapevolezza del legame fra la Storia e il futuro che va costruito nel presente. Non c’è stato intervento del banchiere privo di considerazioni sul destino delle donne e degli uomini, la solidarietà e la crescita sostenibile europea. «Solo continuando il progresso – afferma nel 2018 -, liberando le energie individuali, ma anche privilegiando l’equità sociale, salveremo il progetto europeo, attraverso le nostre democrazie e nell’unità di intenti». Ecco il settimo concetto: la costruzione a dodici stelle, mai dubitata. «In un mondo globale – dice nel saluto finale alla Bce – condividere sovranità è un modo per riconquistare sovranità».
L’ottavo concetto è l’innovazione, figlia del coraggio e della conoscenza. E’ Draghi, col primo discorso all’Europarlamento (dicembre 2011) da capo della Bce, a chiedere che l’Europa affronti la crisi con un «Fiscal Compact». Lo prende in prestito dal «voluntary compact», il contratto fra Stati e cittadini con cui il primo segretario al Tesoro americano, Alexander Hamilton, pose le basi per politica di bilancio federale. I governi europei lo seguono, con un piano condiviso (a fatica) per la crescita e la stabilità di bilancio.
Nel marzo 2016, a Bruxelles, avverte i leader dell’Unione che «è la composizione del bilancio, non la dimensione, che conta». Parla di debito (nona parola di riferimento), come poi farà in modo più che chiaro nell’estate scorsa al Meeting di Rimini, con la fortunata visione del «debito buono» contrapposto al «debito cattivo». E’ di nuovo la consapevolezza. Un’esigenza che lo porta ad avvertire in marzo sul Financial Times «della tragedia umana potenzialmente di proporzioni bibliche», quando il Coronavirus comincia a falciare vite. E che, sul medesimo foglio, lo induce a esprimere la convinzione che la tutela dei lavoratori sia più importante dei sussidi a pioggia. Lo stesso animo che lo spinge a credere nell’importanza del quadro di leggi, e del suo rispetto per riforme e bilancio. «Le regole hanno senso solo se applicate con coerenza nel tempo – nota nel giugno 2016 alla vigilia del referendum sulla Brexit -, devono garantire la tenuta della cornice fiscale».
Quando nell’estate 2012 argina la crisi finanziaria impegnando la Bce a fare tutto il necessario per preservare l’integrità e la stabilità dell’euro – "Whatever it Takes" – non solo ottiene il risultato auspicato, ma conia un termine volato fra i neologismi della Treccani e su un murale (diffuso sul web, ma chissà se vero) in cui un innamorato paragona la fiamma alla frase di SuperMario. L’impegno grave di un banchiere centrale diventa icona pop e chissà se questo lo ha avvicinato ai giovani, il suo crinale del progresso. Quasi un mantra, le future generazioni citate ancora ieri al Quirinale. A Rimini è severo: «Ai giovani bisogna dar di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza d’una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il reddito futuri».
Uomo curioso, colto, più a sinistra di molta sinistra, attento a tenere la palla di crescita e riforme al centro nella partita dell’Unione – «senza non si crea occupazione» –, Draghi avrebbe avuto altro destino se fosse stato dogmatico e privo dello spirito guascone che porta a cambiare le regole riscrivendole per il benessere collettivo. Se non avesse innovato. Se non avesse guardato indietro per capire dove andare. Come capita a Bologna, due anni fa. Quando riprende un discorso del 1981 del santo padre benemerito Benedetto XVI. E scandisce che «la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole... Non è morale il moralismo dell’avventura... Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica». Ora è venuto il tempo di vedere se aveva ragione. E se funziona.