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 2021  febbraio 04 Giovedì calendario

Breve storia dei governi del presidente

Ogni tanto succede che la classe politica faccia crash, o tilt, o che si sgonfi come un palloncino – è il caso odierno – emettendo rumori sconvenienti. A quel punto occorre mettersi nei panni del presidente della Repubblica: che può fare?
Nel corso della Prima Repubblica la congestione era di norma determinate da un eccesso di manovre all’interno della Dc, i cui capi erano specializzati a fregarsi l’un l’altro – stiletto e veleno, storiche armi Romanae Curiae – nel costante andirivieni fra Piazza del Gesù e Palazzo Chigi. Questo portò almeno tre volte i presidenti della Repubblica a imporre governi come extrema ratio da accettare obtorto collo. Come conferma il latino, si tratta di una casistica ormai vetusta e un po’ iniziatica.
Ma quando nell’estate del 1953, trasferitosi nella splendida villa presidenziale di Caprarola, Einaudi si vide bocciare De Gasperi, addirittura, e poi anche Piccioni, affrontò i maggiorenti dello scudo crociato con gelida cortesia piemontese: adesso vi prendete Pella; e quelli se lo presero – anche se di lì a poco, con sublime malizia, definirono quel governo “amico”, intendendo il contrario.
Poi nel 1960 fu Gronchi a perdere la pazienza, e dopo l’affondamento di Piccioni, Segni e Fanfani ripropose d’autorità il suo preferito, Tambroni, che nel frattempo aveva perso pezzi, e che in seguito si ostinò a restare mentre nelle piazze succedeva l’ira di Dio. Infine Saragat: nel 1970, dopo un fallito tentativo di Andreotti, pretese che a Palazzo Chigi fosse insediato e accettato Colombo.
Ma nei tre casi si trattava pur sempre di governi presieduti da parlamentari dc, ancorché a incastro quirinalizio; mentre per inquadrare l’operazione Draghi è utile ripercorre in estrema sintesi una storia più recente che chiama in causa premier estranei, lontani, stranieri – non si dirà qui tecnici essendo tale nozione fra le più ambigue anche perché utilizzata nel Palazzo come minaccia, alibi, foglia di fico e cintura di castità, senza contare l’inesorabile evocazione di massonerie, consorterie, poteri forti e occulti che accompagna queste scelte.
E dunque nell’aprile del 1993, mentre veniva giù la Repubblica dei partiti, Oscar Luigi Scalfaro chiamò al Quirinale l’allora governatore di Bankitalia Ciampi, di cui non si sapeva nemmeno che partito avesse votato. Il suo mandato, grazie al prestigio e all’autorevolezza, era di fronteggiare la terribile speculazione che si era avventata sulla lira dopo i disastri di Tangentopoli, gli arresti, i suicidi, gli attentati e le bombe mafiose, la glorificazione delle manette, gli onorevoli inseguiti per le strade e i partiti in via di liquefazione. Ciampi fece le consultazioni da casa, quartiere Nemorense. Uno o due giorni, poi in Parlamento.
Anche Lamberto Dini, detto Lambertow per il lungo soggiorno in Usa, veniva da Via Nazionale, sebbene fosse ritenuto meno indipendente perché Berlusconi nel 1994 l’aveva fatto ministro del Tesoro e l’anno seguente indicato come suo successore. E tuttavia Scalfaro lo volle per riassorbire il trauma arrecato dal Cavaliere, che aveva recato in dote conflitto d’interesse, problemi di giustizia e una maggioranza ormai venutagli meno. Dini presentò un governo di esperti e alti burocrati che più grigio e lontano dal mondo berlusconiano non poteva essere. Poi, come succede, ci prese gusto e si fece un partitino di cui si è perso il ricordo.
Dieci anni dopo, consumatosi il breve ciclo di Prodi e il cannibalismo a sinistra, al culmine del basso impero del Cavaliere, Napolitano ritenne che fra continue leggi ad personam, scandali sessuali, colpi di sonno, figuracce all’estero, boom dello spread, lettere della Bce per il disastro dei conti, insomma, non si poteva più andare avanti così. E con determinazione, riservatezza e tempismo preparò il passaggio d’epoca nominando Monti senatore a vita quattro giorni prima di affidargli l’incarico.
Da allora sono passati altri dieci anni e quattro governi (Letta, Renzi, Conte 1 e Conte 2). Adesso Mattarella si è inventato Draghi, che è molto pignolo, molto sportivo e ha il gusto di arrampicarsi in vetta “per le vie ferrate”, come un giorno precisò a chi incautamente aveva scritto che scalava i ghiacciai.